I saggi non servono, in democrazia decide il popolo
È fin troppo comprensibile la soddisfazione espressa da molti esponenti del Pdl a commento del lavoro svolto dai saggi incaricati dal Quirinale di “facilitare” lo sblocco della situazione politica. Alcune delle soluzioni proposte suonano come autentici sdoganamenti di proposte sempre avanzate dal centrodestra e puntualmente bollate dagli avversari come eretiche, incostituzionali e persino eversive. Ne è buon esempio il testo elaborato sulla giustizia o sulle intercettazioni: sembravano ossessioni berlusconiane, in realtà evidenziano esigenze legittime molto diffuse ancorché assurdamente prive di regolamentazione e di tutela. Lo stesso si potrebbe dire sul semipresidenzialismo o sul federalismo fiscale. Soddisfazione più che legittima, dunque, da parte del Pdl.
La questione, tuttavia, è un’altra e consiste nel comprendere se il metodo inaugurato (per evidente stato di necessità) dal presidente Napolitano possa preludere alla stipula di un accordo proficuo e duraturo o se esso vada realmente rubricato alla voce “esercitazioni accademiche”, come del resto aveva candidamente ammesso una “voce di dentro”, cioè il prof. Onida, caduto nel trappolone della falsa Margherita Hack organizzato dalla Zanzara.
È più facile propendere per la seconda ipotesi: al netto di alcune figure realmente tecniche ed estranee agli schieramenti, i “facilitatori” sono infatti espressione di quello stesso mondo politico che non riesce a trovare un comune denominatore su cui costruire un possibile accordo. A quel mondo rispondono e da quel mondo traggono legittimazione e da quel mondo ricevono l’autonomia possibile in casi come questi, cioè non illimitata né assoluta. È perciò prevedibile che ognuno abbia agito secondo i canoni classici della trattativa politica. Il limite è proprio qui, nella pretesa (un po’ ingenua) di poter assemblare pezzi di programmi tra di loro alternativi, sterilizzarne la portata politica, condirli nella salsa dei facili (ed ipocriti) unanimismi (riduzione dei parlamentari, fine del bicameralismo, tetto alle spese elettorali), shakerarli nell’emergenza economico-sociale del momento e quindi servirli come menù del giorno quando invece sono le stesse pietanze da almeno vent’anni. Non che siano tutte avariate, anzi. È che nessuno, per un motivo o per un altro, è mai riuscito a farle mangiare. E allora non si capisce perché quel che è stato impossibile lungo tutto l’arco della cosiddetta Seconda Repubblica – con il fallimento della bicamerale D’Alema e con la bocciatura referendaria della riforma della Costituzione voluta da Berlusconi, Fini, Bossi e Casini – possa taumaturgicamente imporsi ora solo perché vi hanno lavorato dieci autorevolissime persone e non le commissioni parlamentari. La risposta è che Napolitano doveva evitare uno stallo politico incomprensibile per le cancellerie europee ed intollerabile per i mercati finanziari. Lo ha fatto nell’unico modo in cui il prender tempo non assomigliasse maledettamente al perder tempo, cioè inventandosi un programma di riforme che – senza scomodare la zingara o il veggente – difficilmente vedranno la luce nella legislatura appena cominciata.
Probabilmente, sarebbe stato più saggio se i saggi avessero lavorato intorno ad un unico punto, quello della modifica dell’attuale legge elettorale – sempre più sospettata di eresia costituzionale come confermano le parole pronunciate solo ieri dal presidente della Consulta, Gallo – per poi restituire la parola ai cittadini. Propinare papocchi per evitare le urne è specialità tutta nostrana che non ha mai portato bene.
Al contrario, quando uno scenario politico è offuscato ed il sistema politico si mostra incapace di trovare al proprio interno soluzioni decorose e di respiro è giocoforza ricorrere all’unico arbitro insindacabile in una vera democrazia, il popolo. Almeno così si fa altrove, così si è fatto persino in Grecia. Se necessario, si faccia anche in Italia.