Bersani chiude al Pdl e corteggia Grillo. Ma così dimentica la lezione di Togliatti

19 Mar 2013 8:27 - di Mario Landolfi

C’è una insospettata ostinazione in Bersani. E non mi riferisco tanto alla sua pretesa di ottenere da Napolitano l’incarico di formare il nuovo governo (i numeri, come i famosi fatti di Lenin, hanno la testa dura e lui non li ha dalla sua parte) quanto alla sua ermetica chiusura verso ogni ipotesi di collaborazione con il PdL. Su questo il segretario dei democrats, per molti aspetti incarnazione di bonomia emiliana, diventa del tutto tetragono  fino a sfiorare l’autismo nella sua affannosa ricerca di voti altrui: grillini, montiani e persino leghisti. Tutti insomma ma non quelli del PdL. Perché? È evidente che in lui giocano due paure, quella di Berlusconi, sul quale pesano un paio di precedenti – bicamerale D’Alema e governo Monti – che non depongono in favore della sua affidabilità politica, e quella instillata dal suo stesso elettorato poco propenso ad un matrimonio, seppur di convenienza, con il Cavaliere. In questo caso pesano vent’anni di scontro frontale, di bipolarismo primitivo e muscolare, che hanno finito per innalzare una cortina di incomunicabilità tra i partiti protagonisti della Seconda Repubblica. Ma se il terrore di essere sedotto e abbandonato da Berlusconi ha qualche fondatezza, sebbene il voltafaccia sulla Bicamerale abbia motivazioni più complesse, il timore di essere sconfessato dai suoi rivela, invece, l’esercizio di una leadership indebolita da un voto che ne ha evidenziato la fragilità contenutistica e l’assenza di visione. Da ministro, Bersani si è intestato alcune “lenzuolate” liberalizzatrici che hanno fatto più rumore che bene, ma che comunque gli sono valse la fama di uomo determinato e concreto, capace anche di urtare interessi settoriali consolidati. Un ottimo amministratore di quella scuola emiliana cui Togliatti, tuttavia, era restio a conferire galloni politici. Già, Togliatti. Nel ’46, da Guardasigilli, amnistiò i ragazzi di Salò. Da costituente acconsentì al recepimento nella Costituzione del Concordato tra l’Italia fascista e il Vaticano. Il segretario del Pci era ben consapevole che quelle due decisioni non avrebbero fatto fare salti di gioia alla base comunista, tutt’altro. Ma le adottò ugualmente perché prevedeva che i fascisti si sarebbero vendicati del 25 luglio e dell’8 settembre votando contro il re e quindi per la repubblica nel referendum e che il sì al mantenimento del Crocifisso in scuole ed uffici avrebbe favorito il dialogo – come si diceva un tempo – tra masse popolari, quelle comuniste e quelle cattoliche. Togliatti faceva politica, teneva conto di sentimenti, risentimenti e umori ma non ne era condizionato. Era repubblicano, ma questo non gli impedì di presentarsi al cospetto di Vittorio Emanuele III con vestito blu e (scandalose) scarpe marrone per mettersi a sua disposizione. Coi fascisti era scorso il sangue, ma li amnistiò, seppur per calcolo. Era ateo, come la maggior parte dei suoi, ma non gli sfuggiva il ruolo della religione sul popolo e nel popolo. Soprattutto riusciva a distinguere i l’effimero dal duraturo. Incontrò Guglielmo Giannini, commediografo dall’invettiva devastante e fondatore dell’Uomo Qualunque, una specie di antenato del grillismo, ma non avrebbe mai pensato a farci un governo insieme. Il governo, lui, voleva farlo con gli “odiati” democristiani perché capiva che sarebbero rimasti a lungo su piazza. Era un totus politicus. a caso lo chiamavano “il Migliore”. , tornando a Bersani, non oso neanche pensare a come potrà essere ricordato se il suo progetto di accordo con i Cinquestelle dovesse, come pare, naufragare.

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