La sinistra sceglie il suo inno: “La canzone mononota”. E parte la santificazione del festival di Fazio
Un tempo erano solo canzonette. Quando il festival, come scriveva Michele Serra, era “educazione al basso livello”. E veniva guardato “da quelli che non leggono libri, non vanno a teatro, non vanno al cinema, e non hanno avuto tempo e modo di racimolare qualche termine di paragone”. Adesso Michele Serra è diventato uno degli autori del festival e certe cose non le scrive più. Adesso c’è la coppia Fazio-Littizzetto e allora le canzonette “devono” diventare esplosioni di creatività, scintille di genio che dal palco dell’Ariston si riversano su un pubblico finalmente ri-educato all’estetica. Via il remoto ricordo di “Italia amore mio” cantata da Pupo e dal rampollo dei Savoia (brano di sicuro non esaltante) oggi si elegge a regina del festival “illuminato” la canzone di Elio e le storie tese “La canzone mononota“, ottavo posto nella classifica provvisoria ma già sul podio secondo il manifesto. L’Unità concede al brano denso di virtuosismi (effettivamente molto adatto a colpire di questi tempi l’immaginario destrutturato della sinistra) un bel nove in pagella. Il migliore, dunque, secondo loro. E su Il Fatto Andrea Scanzi appare addirittura folgorato: “Quattro minuti di genio brado, difficoltà enormi e gradevolezza immediata. Basterebbe la strofa su Jobim per gridare all’epifania creativa”. Non è di quelle che fischietti poi sotto la doccia, anzi ti viene persino in mente, ascoltandola, che ti sembra “una cagata pazzesca” ma il festival “illuminato” aveva bisogno di una canzone che lasciasse l’aurea impronta ed il tormentone è stato trovato tra gli applausi della sinistra antipatizzante ed “eletta”.
Ma non c’è solo la band di Elio. Infatti non poteva bastare una sola canzone ad imprimere sul festival il contrassegno di show “anagogico”. C’è stata anche la danza di Luciana Littizzetto contro la violenza sulle donne. Iniziativa sacrosanta, per carità. Migliaia di altre donne lo hanno fatto in Italia e nel mondo ma lei lo ha fatto nel festival più seguito e amato-odiato dall’Italia. Un superspot contro il femminicidio. Applausi anche da chi scrive (con la consapevolezza che le violenze, in ogni caso, continueranno). Se non che ciò che ci viene imbastito sopra ha un sapore di indigeribile conformismo: sul Corriere si legge oggi un articolo di Maria Volpe che ci informa del fatto che il copione delle donne sta cambiando finalmente anche a Sanremo. Insomma cose così, tipo non più esibizione del corpo delle donne ma dei cervelli femminili e via con la retorica di rito. E tutto questo perché la coppia Fazio-Littizzetto è paritaria, lei non è la “bambola” di Fazio (anche se, aggiungiamo noi, lui una modella sul palco se l’è portata lo stesso, Bar Refaeli, e lei dice un sacco di parolacce e non risparmia allusioni sui cognomi dei cantanti e degli autori dei brani e sbuffa e esclama “che palle, ma quante volte lo devo dare questo avviso” e ciò risulta vagamente urticante pensando che certo non si trova lì per farci un favore ma perché ha contrattato un lauto cahet). In pratica la sintesi sarebbe che al posto della farfallina di Belen oggi c’è il flash mob anti-stupri e dobbiamo stare tutte più contente. E meno male, aggiungiamo noi, che c’era pure Al Bano salutato da una standing ovation perché in fondo Sanremo dovrebbe essere utile alla buona musica e non alla rieducazione del gusto degli italiani. Questa pretesa che serpeggia nei pezzi dei commentatori che si affannano a santificare il festival di Fazio e Littizzetto è francamente fastidiosa e si basa su premesse logiche un po’ povere, come se per risolvere la secolare questione della sudditanza femminile nella storia bastasse scartare il vallettismo alla Pippo Baudo, il velinismo stile Striscia e ingaggiare una ex modella, Carla Bruni, che canta male canzoni noiose o, ancora, evitare i vestiti spumeggianti di Antonella Clerici orientando le telecamere su una Littizzetto che evita persino di pettinarsi. Ci sembra poco. E ci sembra poco anche per mettere l’aureola a Fabio Fazio.