Philippe Daverio: “Povera televisione italiana sotto la dittatura del reality”

25 Nov 2012 0:01 - di Antonio Rapisarda

Quando sente che in materia di “soft power”, le qualità culturali di una nazione che “persuadono”, sono gli inglesi a spadroneggiare Philipphe Daverio – critico d’arte, volto amato della divulgazione della cultura – prende spunto dall’eccentricità dei sudditi di Sua maestà per colpire alcuni difetti tutti italiani. E, per celebrare l’avvenimento, lo fa con l’umorismo tipicamente british…

La notizia è che in una speciale classifica la “vecchia “ Inghilterra batte gli Stati Uniti.

Faccio fatica a confrontarmi con parametri così anglosassoni. Mi sembrano una bufala. Detto ciò questa analisi è importante da un altro punto di vista: e qui mi viene incontro il mio maestro di pensiero che è Marc Bloch, il quale sosteneva che la disinformazione vale quanto l’informazione.

L’Italia, timidamente, in questa classifica guadagna due posizioni. Ci crede?

No. Perché in realtà le strutture culturali, nella nostra tradizione che è differente da quella inglese, sono legate anche e soprattutto ad erogazioni pubbliche che ne consentono la sopravvivenza. Cioè da noi il teatro funziona se hai soldi per tirarlo su, sennò il sipario resta chiuso. Noi qui abbiamo calato la spesa del 40 per cento, per cui è difficile dire che siamo cresciuti. Stesso discorso nel campo delle grandi mostre, dove non abbiamo fatto niente.

Dicono che questa promozione sia merito della fine di Berlusconi…

L’immagine internazionale dell’Italia con la scomparsa di Berlusconi è cambiata. Però non è accresciuta la cultura. È solo cambiata l’immagine. Il mondo internazionale, che compera moda italiana e mangia roba italiana, è rimasto molto infastidito che dietro a quello che credeva il suo maggior investimento – come una borsa di lusso – corrispondesse il “bunga bunga”. L’uscita di scena di Berlusconi ha legittimato l’acquisto di nuovi prodotti italiani. Per gli inglesi, popolo storicamente straccione, poter comprare una giacca di Armani è un fatto culturale.

Ci superano nazioni come la Danimarca e la Svizzera. Che cosa significa questo?

Ma vorrei ben vedere. Mi stupirei se ci superasse il Bangladesh. Nei Paesi del Nord la scolarizzazione è quattro volte la nostra. Noi laureiamo  il 7%, i danesi e i tedeschi più del 30%. È ovvio che c’è una differenza: loro hanno dei sistemi museali efficienti e così via. Loro sono in Europa, noi siamo tra i “Pigs”…

E pensare che il ’900 ha visto l’Italia al centro delle avanguardie, del design, dell’innovazione. Oggi?

Dall’Italia proviene pochissimo. Perché non c’è più una struttura capace di sostenere il talento: per cui se uno è bravo gli conviene andarsene. Oltre a essere in regressione, l’Italia è diventata provinciale: per cui gli architetti nostri vanno a costruire altrove e noi invece prendiamo i derivati o quelli che una volta erano famosi. Abbiamo sostituito il conformismo internazionale con la nostra capacità creativa.

Salva qualcosa?

Il campo del design rimane un’oasi. Laddove, attenzione, non si chiede nessun intervento dello Stato. Il Salone del mobile di Milano rimane il posto più importante al mondo per ciò che riguarda rete del design. Perché dietro ci stanno centinaia di brianzoli operosi che non chiedono aiutono allo Stato. Il mondo dell’alta moda ha invece perso la scommessa: è diventato anziano di età, non c’è stato un cambio generazionale altrettanto vivace. E poi ci sono i cuochi, il loro mondo va alla grande…

Il segreto?

Negli ultimi trent’anni la cucina italiana si è evoluta, anche nell’immagine. E ciò è potuto avvenire perché, per fortuna, non è controllata dallo Stato. È una fortuna, cioè, che non abbiamo l’albo dei cuochi. Immaginiamo se lo Stato volesse mettere in becco anche in cucina, con la cassa mutua dei cuochi o altro…

La chiusura di “Passpartout”, il suo programma televisivo di successo, è testimonianza del fatto che il “soft power” da noi è snobbato?

Forse continua. E si chiamerà “Il Capitale”. Ma ridurremo del 40% le puntate perché la Rai ha pochi soldi. Che posso dire: questo è il segnale di un Paese che fa delle scelte politiche. Basti pensare che tutte le puntate del mio programma costano quanto un’unica puntata di “Pechino Express”, il reality con il principe ereditario , quello con la gente che vomita per un’ora, con il principe che sorride. È una scelta della Rai. Resta complicato capire che cos’è cultura in Italia…

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