Primo maggio e 25 aprile addio?
Non metterà la parola fine alla crisi, non darà sollievo alle famiglie monoreddito, non garantirà il futuro ai giovani disoccupati ma almeno manderà in pensione le stucchevoli polemiche “preventive”. Quelle che da oltre mezzo secolo accompagnano la vigilia del Concertone del 1 maggio e le commemorazioni del 25 aprile con annessi bracci di ferro e carriarmatini piazzati come al Risiko. Finora è soltanto un’idea, osteggiata dai sindacati, che ricalca una proposta targata Tremonti. Lavorare di più per uscire dalla crisi, magari accorpando anche qualche festa comandata: è questa la ricetta del sottosegretario all’Economia, Gianfranco Polillo, dopo l’ipotesi ventilata di lavorare una settimana di più «per far ripartire l’economia e far risalire il Pil».
Dell’ipotesi di razionalizzare le festività si è discusso nel pre-consiglio dei ministri dell’altro ieri quando il sottosegretario Antonio Catricalà avrebbe chiesto ai tecnici di diversi dicasteri di presentare un parere. «Mi auguro che il problema venga preso di petto – conferma Polillo – perché aumentare le ore di lavoro degli italiani è una delle chiavi per risolvere la crisi. Sono contento di essere stato seguito in questo indirizzo, l’importante ora è discuterne». E di questo può stare certo perché l’argomento si presta facilmente alle crociate ideologiche e alle resistenze dall’acre sapore militante. Polillo spiega di non sapere ancora quale sarà la via legislativa scelta (se un decreto ad hoc o un emendamento alla spending review) ma che una cosa è certa: in Italia il rapporto tempo libero/lavoro è troppo basso. «Ad esempio in Alenia è stato firmato un accordo con i sindacati per lavorare 7 giorni a settimana con i turni per un totale utilizzo degli impianti. All’estero già funziona così. Per esempio sono andato il Primo Maggio a Londra e l’avevano già celebrato la domenica precedente». E gli italiani? «Noi lavoriamo 9 mesi l’anno, guardate il contratto dei metalmeccanici: per i lavoratori anziani sono previste 5 settimane di ferie, 15 giorni di permessi retribuiti obbligatori, 12 festività civili e religiose e altri 10 giorni tra scioperi, malattie, assenteismo. E se guardiamo i numeri dell’Istat, cioè il rapporto tra numero di ore lavorate e numero di addetti, il risultato è lo stesso». Insomma l’aumento dei giorni di lavoro «è la premessa per aumentare il margine operativo lordo, i profitti e far ripartire gli investimenti». Ma c’è anche il problema dei consumi: ogni anno per mantenere un livello di consumi «bassissimi e orrendi – dice ancora Polillo – abbiamo bisogno di prestiti esteri di 50 miliardi di euro. Cioè un livello di consumi insostenibile rispetto alla produzione». Dallo staff di Palazzo Chigi fanno sapere che l’ipotesi è quella di accorpare le feste patronali, escluse quelle “concordatarie”, quelle cioè vincolate ai rapporti con la Santa Sede. Tecnici dei ministeri del Lavoro, del Tesoro, della Funzione pubblica e dello Sviluppo stanno studiando un progetto di fattibilità in base ai risparmi reali derivanti dall’operazione. L’esecutivo non sta facendo altro – spiegano – che dar corso a norme di legge (Brunetta-Tremonti) che chiedono una decisione sull’argomento. Le feste patronali potrebbero essere accorpate a un venerdì oppure a un sabato o a una domenica. Immancabile scatta l’allarme dei resistenti. Dei sindacati, dell’Anpi e di alcuni esponenti politici. «L’accorpamento non aumenterà il Pil, ma sarà la mazzata finale per l’economia del turismo, già adesso in crisi», replicano le associazioni di categoria del turismo. «Siamo perplessi e contrari», dicono dalla Cgil, «stiamo parlando di festività laiche e religiose che verrebbero accorpate diluendo così il valore sociale, culturale e storico per il Paese». Per la Cisl è «una misura che rischia di bloccare i flussi turistici che muovono tante attività e di rallentare quindi l’industria turistica». Scontato il “no, grazie” della Fiavet: «È una medicina che non va bene per la malattia che ha l’Italia, bisogna trovare un’altra cura per l’ammalato», dice il presidente della Federazione delle agenzie di viaggio aderente a Confcommercio. Ma è l’Associazione nazionale partigiani d’Italia a mandare il messaggio più bellicoso: il governo non si azzardi a toccare il 25 aprile. «Secondo notizie di stampa, il governo si appresterebbe a procedere ad alcuni accorpamenti di festività. Nella scure incapperebbero anche tre feste ben note per essere state già oggetto di tentativi analoghi (25 aprile, 1 maggio, 2 giugno). Ci sono festività che nascono da consuetudini o semplici abitudini, che forse possono consentire qualche operazione. Altre, come quelle citate, rappresentano il nostro passato migliore, i valori su cui si fonda la nostra Repubblica: sono, in una parola, la nostra storia. E non vanno toccate». Dal Palazzo si fanno sentire l’immancabile Tonino Di Pietro («A Monti la sola cosa che viene in mente è tartassare ancora di più chi già paga tutto, eliminando un po’di festività per i lavoratori mantenendo gli stipendi d’oro dei supermanager di Stato») e un “romantico” Italo Bocchino («Più che le festività riduciamo le ferie. Sarebbe difficile spiegare ad un bambino che l’Epifania non è più il 6 gennaio…»). Contrario anche il pidiellino Alfredo Mantovano per il quale «piuttosto che abolire, perché di questo si tratta, alcune festività che hanno una tradizione millenaria, sarebbe meglio adoperarsi per rendere più efficiente il lavoro nei giorni previsti».