Ora i “viola” odiano Giorgio più di Silvio
«Bottiglie di spumante stappate, cori da stadio e trenini di persone. Tantissimi cittadini hanno invaso la piazza, c’è anche una piccola orchestra di musicisti con la presenza di oboe e fiati. Manifestanti del cosiddetto “popolo viola” gridano “bye bye Silvio”, altri dimostranti, soprattutto donne, cantano l’Alleluja. Altri espongono cartelli con su scritto “Finalmente” o “Grazie Napolitano”. La folla ha accolto con un lungo applauso l’annuncio di dimissioni di Berlusconi. Non solo: tutta la facciata della Consulta è occupata dalla folla, ma anche il lato delle scuderie del Quirinale, con la polizia a far da cordone. “Buffone, buffone”: le urla della folla sono intervallate dalle note di un’orchestra che nell’attesa del premier ha suonato l’Inno d’Italia. Ma c’è anche chi intona “Bella ciao”, seguita da “Meno male che Giorgio c’e”».
Le cronache sembrano uscite da un dispaccio Pravda, ma sono recentissime. Tutto ciò accadeva il 12 novembre 2011, praticamente ieri. Berlusconi si dimetteva, la piazza di sinistra brindava in modo volgare e sguaiato, osannava il Capo dello Stato e intonava cori di liberazione. Napolitano, considerato l’unico riferimento istituzionale e politico credibile per una parte dell’opposizione, anzi, fin troppo morbido con il Cavaliere, aveva finalmente rispettato le consegne, pilotando l’addio del nemico, aprendo la strada di Palazzo Chigi a “chiunque, purché non fosse lui, Berlusconi”.
Oggi, a distanza di poco più di quattro mesi, la situazione si è completamente rovesciata. Il nemico di quella festosa macchina da insulti dal colore rosso e viola, che in piazza festeggiava la fine di un proprio incubo personale, oggi non è più il Cavaliere ma l’inquilino del Colle. Tacciato, adesso, di aver aperto la strada al governo dei tecnici che sta affamando il popolo, vandalizzando le pensioni e cancellando le garanzie sul lavoro. Insomma, la sinistra movimentista ha scoperto di essere caduta dalla padella alla brace e non ha neanche il pudore di tacere. Il governo del “presidente”, quello che Napolitano si coccola nell’ombra e di cui si fa garante ad ogni passaggio delicato, oggi si sta rivelando un rospo ben più indigesto di quello berlusconiano. E quando Napolitano, come ha fatto anche ieri sull’articolo 18, arriva in soccorso di Monti e della Fornero, dettando perfino le modalità di decretazione per non irritare il Pd, la reazione che arriva da certi ambienti che prima lo osannavano, è durissima.
«Non credo che stiamo per aprire le porte a una valanga di licenziamenti facili», ha detto ieri il presidente della Repubblica. Apriti cielo. «Giudichiamo gravi le continue “invasioni di campo” del presidente della Repubblica», ha subito tuonato sulle agenzie Orazio Licandro, coordinatore della segreteria nazionale del Pdci. «Intervenendo nel dibattito così strettamente di competenza parlamentare rischia di alterare la normale dialettica politica e istituzionale. Diciamo questo con il rispetto che si deve alla prima carica dello stato e proprio perché siamo rispettosi sino in fondo della Costituzione. E trattandosi di materia delicatissima, questa della riforma del lavoro, da nessuna parte, seppur autorevole, può venire un aut aut». Sulla stessa linea anche i “travagliani”, con il Fatto in prima linea a censurare il pressing del Colle sulla riforma del lavoro, per non parlare de l’Unità. Il “popolo viola”, su twitter, va direttamente al sodo: «Ma perché Napolitano non si rilassa un attimo e lascia che il dibattito sull’articolo 18 lo facciano il governo, il Parlamento e le parti sociali?», si chiede la voce ufficiale dei movimenti. Ed ancora: «Napolitano ormai parla come un segretario di partito». Paolo Ferrero, segretario del Prc, non è da meno e commenta così la dichiarazione di Napolitano, secondo cui sarebbe grave se non si arrivasse a un accordo. «Per me è grave che governo proponga di manomettere l’articolo 18 e i diritti».
Anche Beppe Grillo ha da tempo scaricato Napolitano, prima ancora che si rendesse “complice” di Monti sulle riforme di pensioni e lavoro. Sulla questione della Tav, per esempio, il comico ha recentemente postato un articolo nel quale si chiedeva «se questo è un presidente…». «Napolitano si è rifiutato di incontrare quei pericolosi delinquenti dei sindaci della Val di Susa. Ha detto, digrignando la dentiera: “L’espressione del sacrosanto diritto al dissenso su qualsiasi scelta e decisione politica e di governo, deve escludere il ricorso a violazioni di legge, violenze, intolleranze e intimidazioni, come quelle che si sono purtroppo verificate anche negli scorsi giorni in nome dell’opposizione al progetto Tav Torino-Lione”. Lo stile è lo stesso dei tempi dell’Ungheria….». Quando, per la cronaca, Napolitano giustificò l’invasione russa.
Sono lontani i tempi in cui anche l’Italia dei Valori esaltava il ruolo di Napolitano, se c’era da attaccare il Cavaliere: «Berlusconi di fronte ad una situazione del genere che fa? Decide di andare al vertice e si dice “pronto e determinato a reagire in maniera dura. E ancora: “Non devono spiegare a me come fare. Ho creato dal nulla un’azienda con decine di migliaia di dipendenti”. Cioè è intenzionato a mostrare i muscoli. Che diversità rispetto al comportamento di un vero uomo di Stato, come Alcide De Gasperi, alla Conferenza di pace di Parigi nel 1946. Sarebbe stato preferibile che a rappresentare il nostro Paese a Bruxelles ci fosse andato Napolitano in luogo di Berlusconi. Avremmo trovato più comprensione e simpatia», diceva solo sei mesi fa il deputato Antonio Borghesi. Dimenticando che quando il Colle aveva firmato il lodo Alfano, Antonio Di Pietro si era spinto al punto da chiedere l’impeachment per Napolitano. Oggi siamo tornati più o meno a quella posizione, con l’Italia dei valori che dall’opposizione spara a palle incatenate contro il Quirinale, anche se ieri Di Pietro non attaccava esplicitamente Napolitano: «Dal governo è arrivata una dichiarazione di guerra guerreggiata ai lavoratori e ai giovani», ha tuonato l’ex pm, che in quell’area grigia di militanza movimentista, da sinistra fino al Pd, sguazzava ieri quando c’era da festeggiare sotto il Quirinale e sguazza oggi che c’è da fare demagogia sui temi del lavoro. «Tutti in piazza», annuncia. Anche in quella del Quirinale?