Lavoro: salviamo i naufraghi
Il “tavolo sul lavoro con le parti sociali” è un grande bluff. Le parti sociali sono i principali sindacati e la loro priorità è da sempre come tutelare chi il posto di lavoro già lo ha. Le necessità strategiche dello sviluppo chiedono invece “flessibilità”, che significa libertà di licenziare per assicurare l’efficienza o anche la banale sopravvivenza delle aziende e minore costo del lavoro (tasse e contributi). Poi c’è il problema del non accesso al lavoro per i giovani, che dovrebbero esigere maggiore “flessibilità in entrata” (dovrebbero, perché gli unici che hanno diritto di ascolto sono quelli politicizzati a sinistra, che chiedono invece lavoro fisso per tutti e cioè – volutamente – l’impossibile). Poi c’è la realtà, e cioè che – al di là dei proclami montiani che assicuravano di risolvere tutto per magia – in Italia la crisi dei settori produttivi galoppa, che i costi lievitano (anche grazie alle demenziali imposte sulla benzina) e le aziende chiudono. Insomma: si perdono posti di lavoro e non se ne creano di nuovi. L’aumento degli stipendi non copre l’aumento dell’inflazione. Così il tavolo sull’occupazione diventa – responsabilmente – un tavolo sui sussidi di disoccupazione, sulla Cassa integrazione e sugli ammortizzatori sociali. Le barricate sull’articolo 18, dinanzi alla morìa delle aziende, assomigliano molto a un “muoia Sansone con tutti i filistei”. Almeno si è fatta chiarezza. Dello sviluppo – semmai – se ne occuperà il prossimo governo. Speriamo con maggior realismo.