Quando mamma Maroni non scese in piazza…
«Le riforme in Italia sono difficilissime per il corporativismo delle lobby». L’analisi è da politologo, ma è di Uto Ughi. Il grande violinista è intervenuto ieri a Trieste parlando della necessità di una legge di riforma dei teatri, ma la considerazione può valere per tutti gli altri settori. Al contrario di Niccolò Paganini (di cui Ughi è il più illustre erede) parte del mondo politico ripete, da quasi vent’anni, la stessa filastrocca: «Servono riforme strutturali». Salvo scendere in piazza e mettersi di traverso come si prova a spostare una virgola.
Cartina di tornasole, la riforma delle pensioni. A distanza di 17 anni ancora adesso la soluzione al giallo di chi fece saltare tutto non è del tutto risolto. Allorché Silvio Berlusconi ricordò che anche Confindustria si mise di traverso, Innocenzo Cipolletta (che era direttore generale) in un’intervista al Corriere della Sera del 2002 riconobbe che se da una parte «la Confindustria era convinta sostenitrice delle proposte fatte dall’ allora ministro del Tesoro, Lamberto Dini» dall’altra «voleva raggiungere un’intesa col sindacato con il quale c’era un buon rapporto». Da qui il rimpallo di responsabilità: «Il coraggio non lo ebbe il governo, già entrato in crisi per dissapori con la Lega, che si mise di traverso per salvare le pensioni di anzianità. Non è un mistero che avrebbero penalizzato i lavoratori del Nord, i figli del boom degli anni Sessanta, e quindi i presunti elettori di Bossi. E così, in una notte dei primi di dicembre del 1994, dopo ore di discussione a Palazzo Chigi, il governo decise di accordarsi col sindacato per stralciare la riforma previdenziale dalla finanziaria e mantenere il blocco delle pensioni di anzianità».
Del resto, il Carroccio ebbe una posizione critica dall’inizio. Lo stesso Roberto Maroni, ministro dell’Interno allora come oggi, dopo il Cdm che aveva dato il via libera alla bozza Dini, confidò ai giornalisti: «Tra le persone che manifesteranno contro la manovra forse ci sarà anche mia madre, che è pensionata». Il titolare del Viminale, che pure era un convinto sostenitore della riforma, tirava in ballo il presunto dissenso materno per anticipare i mal di pancia della base. Poche ore dopo i giornalisti andarono sotto casa della signora Maroni per sapere se sarebbe scesa in piazza il 14 ottobre. «Non ci penso proprio», rispose la mamma di Bobo, che si rivelò una sostenitrice del governo più convinta del figliolo. L’escamotage della famiglia divisa fu tirato in ballo anche da Clemente Mastella. Dopo le manifestazioni che avevano portato nelle principali piazze d’Italia «tre milioni di persone» (secondo i sindacati) fiutata l’aria il ministro del Lavoro disse ai giornalisti che anche il figlio Pellegrino, 15 anni, era sceso a manifestare contro la Finanziaria (firmata da papà) e accompagnato da mammà (la signora Mastella).
Un teatrino politico di lotta e di governo che a sinistra vanta mattatori di prim’ordine. Pochi giorni dopo Massimo D’Alema andò ospite nel salotto televisivo di Gianfranco Funari per spiegare alle casalinghe che cosa sarebbe successo all’indomani della caduta del primo governo Berlusconi, ormai traballante: «Le elezioni? Meglio di no. Questo parlamento può e deve fare le riforme di cui parliamo da tempo», a cominciare da quella delle pensioni che «deve essere tolta dalla manovra finanziaria». Sappiamo tutti invece come è andata. E quando ci ha provato il governo Prodi, nel 1998, il commento del padre degli economisti della sinistra, Paolo Sylos Labini, fu secco: «Questa riforma non sta in piedi. Il premier Prodi e il ministro del Tesoro, Ciampi l’avrebbero già cambiata se non ci fosse il ricatto di Rifondazione comunista». Nel 2003, al governo il centrodestra, «un milione e mezzo di persone» (sempre secondo i sindacati) scese in piazza a San Giovanni contro il tentativo di riformare quel che ci chiede la Ue di risolvere in tre giorni. La sinistra europeista come reagì? Piero Fassino, allora segretario dei Ds, salì sul palco rimediando applausi e arringando la folla contro la riforma scellerata. Il “giù le mani dalle pensioni” fu anche lo slogan del leader dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio e Marco Rizzo dei Comunisti italiani. Tutti uniti appassionatamente nel nome della conservazione.
Per capire come stavano davvero le cose, bisognerebbe rileggere un intervento sull’Unità dell’ottobre 1996 dello stesso Sylos Labini. «Mi costa travaglio spirituale confessarlo, ma quando il governo Berlusconi nel ’94 mi presentò il suo schema di riforma delle pensioni dovetti convenire che era valido». Intervento pubblicato con Prodi a Palazzo Chigi. A sinistra son fatti così: danno ragione all’avversario solo dopo che è tornato all’opposizione.