Luca Pesenti: il problema non è l’austerity, ma il futuro

2 Mag 2012 20:09 - di

Che fine ha fatto il ceto medio? La crisi lo ha privato del tutto della sua capacità di mettere in movimento la società? Alla luce dei dati sulla grande depressione che l’Italia sta vivendo è lecito dire che il ceto medio si è proletarizzato, schiacciato sotto il tallone dello Stato “tassatore”? Sono riflessioni che il sociologo Luca Pesenti, docente alla Cattolica di Milano e direttore dell’Osservatorio lombardo sull’esclusione sociale, utilizza come base per mettere a fuoco quello che è il vero problema dell’Italia di oggi, cioè la “vulnerabilità”.

È vero che i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, con il ceto di mezzo che scivola inesorabilmente verso la semi-indigenza?

È una descrizione un po’ troppo marxiana anche se certamente è vero che i più ricchi tra i ricchi hanno raggiunto il livello massimo di benessere, ma ciò è avvenuto prima della grande crisi. Invece, se guardiamo il lato basso e non alto della società lì vediamo che chi era già in difficoltà è caduto giù. Oggi non esiste un solo ceto medio ma ne esistono almeno tre: quello degli autonomi, quello dei dipendenti nel settore privato e quello dei dipendenti nel settore pubblico.

Quando comincia la crisi del ceto medio?

Almeno da trent’anni a questa parte. Prima far parte di un ceto di avvocati, commercialisti o colletti bianchi portava con sé un insieme di modelli culturali, di simbologie e di modelli di consumo che erano abbastanza chiari nell’immaginario. Ormai tutti, ceto medio e ceto popolare, consumano le stesse cose. In più, se un tempo fare l’avvocato o l’insegnante garantiva un certo stauts sociale oggi non è più così.

Questo vale sul piano culturale, ma sul piano economico?

Il ceto medio ha costruito la propria rappresentazione attraverso l’aspettativa in un futuro migliore. Oggi è questa la grande tragedia: il ceto medio condivide con i ceti più bassi la disillusione nei confronti del domani. Oggi soprattutto il mondo giovanile vive un mito incapacitante che è quello che non lascia speranze per il futuro. L’ascensore sociale si è bloccato ed è per questo che il sistema non funziona più.

Quali sono le responsabilità del governo dei “tecnici” rispetto a tutto questo?

Questo governo conferma questa prospettiva di sfiducia nel futuro, lavora solo sulle tasse e sta dando un messaggio depressivo per le aspettative del ceto medio, che non riesce a rimettere in moto la dinamica del desiderio, ancora viva negli anni Ottanta soprattutto per i figli di chi faceva l’avvocato o il piccolo artigiano o il piccolo imprenditore. Siamo nella fase della castrazione fiscale. Anche sulla spending review il messaggio che è arrivato è stato di vecchio tipo: anziché aggredire la spesa pubblica si nominano dei consulenti, si rinvia tutto. Dunque il messaggio che il governo sta dando è quello che “non si può fare nulla”.

Lei concorda con la tesi di Gallino secondo cui assistiamo a una nuova forma di lotta di classe, non più dei lavoratori contro i padroni ma dei nuovi padroni (finanzieri, banchieri e privilegiati in genere) contro i lavoratori a cui si vuole togliere ogni garanzia?

Gallino ha ragione anche se più che fare riferimento al suo saggio direi che va tenuto presente il libro di De Rita sull’eclissi della borghesia. Direi che oggi si è stretta un’alleanza tra una parte del capitalismo e una parte dell’alta finanza e ciò è avvenuto mentre sullo sfondo si avverte una sospensione delle regole democratiche. Questo non può certo fare piacere. Diciamo che lo stato schmittiano di eccezione può essere inevitabile ma non può durare a lungo, infatti si avvertono segnali un po’ da tutte le parti di critica a questo andazzo.

Si riferisce al previsto exploit delle liste di Grillo?

Mi riferisco al segnale che arriva dalla Francia, contro l’asse franco-tedesco, ma anche ai segnali contro i partiti che hanno dato una pessima prova di realismo. Quanto a Grillo non penso che si possa combattere il male che c’è nella politica con un male ancora peggiore. Grillo mi sembra una riedizione del diepietrismo e del leghismo prima maniera. Oggi siamo come stavamo nel 1993 dopo Tangentopoli solo che non crediamo più a un futuro radioso in cui la politica sarà rinnovata e ciò avviene anche perché si è tentato di risolvere per via giudiziaria la crisi della politica. In parte lo stiamo vedendo anche adesso con le inchieste che coinvolgono la Lega o con l’attacco a Formigoni, che si basa su cose francamente non di grande rilievo…

Anche lei vuol dire che tutti in fondo abbiamo fatto una vacanza in barca?

No, io non voglio dire questo anche perché io personalmente non ho mai fatto gite in barca. Voglio dire che se si colpiscono le forze più popolari e radicate si rende ancora più debole il legame tra popolo e governati. Questa prospettiva non è allettante.

Oggi è l’austerità la nuova cifra con cui leggere il Paese?

No, secondo me è la vulnerabilità. Chi rischia davvero non è una classe o un determinato ceto, a rischiare davvero sono le persone sole, quelle che non hanno a disposizione un tessuto di relazioni ampie, quelli che stanno, per dirla con un’espressione sociologica, in una condizione di basso capitale sociale, che vuol dire anche bassa fiducia nei confronti degli altri e maggiore vulnerabilità. Ma su questo i governi possono fare poco. Il problema è prepolitico e si lega alla disgregazione di una società che ha puntato tutto sull’individuo. È nell’ambito di una visione comunitaria che occorre trovare risposte, che siano culturali prima che politiche.

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