Zampata italiana alle tigri dell’Asia

11 Apr 2012 20:26 - di

Io lo so perché l’Ikea ha «delocalizzato» in Italia dall’Asia: perché il mio mobiletto di legno del bagno, da subito, risultò difettoso. E lo è ancora. Quando apri un cassetto, ti rimane in mano, quindo lo devi reincastrare, spingere e richiuderlo. Fino alla prossima volta. E così altri oggetti di legno, come alcune sedie, che si rompono dopo poco. È evidente che così non sarebbe potuto andare avanti per un’azienda che ha fatto del design, dello stile, della facilità del montaggio ma soprattutto dell’affidabilità e della resistenza, la sua bandiera.
E così, il trust di cervelli che indubbiamente guida la multinazionale che ha rivoluzionato i nostri costumi e forse anche il modo di pensare, si è ricordato che noi italiani certi materiali li sappiamo trattare, li sappiamo lavorare. Come il legno. Ed ecco il trasferimento in Piemonte, in alcuni distretti specializzati per questo tipo di lavorazioni. Nessun regalo all’Italia, dunque, ma solo riconoscimento di un’altissima e collaudata professionalità. E poi, in caso di modifiche in corsa, di componenti da migliorare, vuoi mettere la comodità di arrivare a San Maurizio d’Opaglio o a Gozzano anziché in Vietnam o Malesia? Sembra una battuta, ma non lo è: il Sudest asiatico è quello che è, con la sua burocrazia lenta e corrotta, con gli operai e le operaie che probabilmente non mangiano a sufficienza, che non hanno idea del gusto europeo (dove Ikea piazza la stragrande maggioranza dei suoi prodotti, oltre l’80 per cento), e che lavorano sotto stress per la totale carenza di tutele sindacali, almeno al nostro livello.
E dire che Ikea, fondata in piena guerra mondiale dallo svedese Ingvar Kamprad, in Italia sbarcò relativamente tardi: nel 1989, quarant’anni dopo l’apertura dei suoi primi negozi in alt’Europa, nell’ormai leggendaria sede di Cinisello Balsamo, in Lombardia. Da allora ne ha aperti altri 18, e ad agosto inaugurerà il suo ventesimo punto vendita in Abruzzo, tra Pesacara e Chieti. In pochi anni, fa sapere l’Ikea, il numero dei rivenditori arriverà a trenta, con prossime tappe, a quanto si vocifera, Pisa, Veneto, Umbria, Sicilia, e ancora a Roma e ancora a Torino. Staremo a vedere, con questi chiari di luna. Comunque, con la delocalizzazione qui da noi, il «bello e ben fatto» torna a essere anche ben fatto, perché nell’artigianato e nei lavori di rifinitura di alto livello nessuno ci può battere. Manco i giapponesi.
E la crisi? La nuova Grande Depressione? E l’Italia rovinata dalla sua classe politica? Fumo. Fole propalate a scopo politico, smentite da episodi come questo, che dimostrano che il mercato ancora reagisce, e che la politica del basso costo non per forza deve correre parallela al cattivo gusto. Lo spazio per investire c’è, a patto che il prodotto sia di qualità: in Italia non si investe perché chi aveva intenzione di farlo è stato terrorizzato dalle notizie catastrofiste sull’andamento dell’economia, vere solo in parte, e comunque non attribuibili a quelli a cui la maggior parte della stampa l’ha attribuita. Si sarebbe dovuto reagire: è chiaro che se non si compra le cose vanno peggio per tutti, come è altrettanto chiaro che se le banche non danno fiducia ai progetti, non si costruisce nulla. E chi se la prende la responsabilità di azzardare un investimento in questo periodo che fa apparire il 1929 come un’èra ubertosa? Un signore nato nel 1926, che non ebbe mai paura di proporre, cambiare, rivoluzionare anche i gusti e forse i pensieri. La leggenda dice che Kamprad iniziò vendendo fiammiferi e matite a basso prezzo. Ora le matite le regala a decine di migliaia. Fatto sta che oggi Ikea ha 258 centri in 37 nazioni per un totale di 127mila e passa dipendenti. A proposito, il contributo di Ikea sul fronte dell’occupazione in Italia dovrebbe assommare a poco più di diecimila posti di lavoro.

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