Democrazie nordiche: il mito progressista diventa incubo

26 Lug 2011 20:28 - di

Immortalato in un’istantanea che lo cattura dal finestrino dell’auto della polizia, Anders Breivik mostra un sorriso educato e furbetto. Il volto del male ha le fattezze di questo bravo cittadino. È stato facile, in queste ore, rinchiudere Breivik in un altrove metafisico, farne il nazista, il marziano, il pazzo. Poi scopri che è un fan della massoneria, di Churchill e di John Stuart Mill, che è religioso, sì, ma senza essere fondamentalista, che in politica estera non ha idee diverse dalla Fallaci e in economia professa vaghe tesi “libertarie”. Insomma, scopri che il male non solo è tra noi, ma è anche un puro figlio di questa società fatta di welfare efficiente, piste ciclabili e civismo d’accatto. Benvenuti nelle famose “democrazie scandinave”.

La sinistra vichinga di casa nostra
I commenti degli analisti di sinistra ai fatti di Oslo, non a caso, denunciano tutti lo stupore e la delusione per il crollo di un mito. La palma per l’articolo più fastidiosamente poetizzante, al solito, spetta ad Adriano Sofri, che su Repubblica ha potuto iniziare il suo pezzo con questa elegia: «Quando arrivò a capo della creazione, Dio si frugò nelle tasche e trovò una manciata di granelli di polvere. Rovesciò le tasche, strofinò i polpastrelli, la polvere cadde e fece la Norvegia, mari e monti, isole e fiordi. Nessun posto del mondo è così bello e così civile». Sempre sul quotidiano di De Benedetti, Ilvo Diamanti si è interrogato sul perché di una simile strage in quella Norvegia «che rispetta la natura e non fa affari con i dittatori. Dove i poliziotti girano disarmati. Un Paese mite». Ma il flirt della sinistra nostrana con il vento del nord è più antico. Sorvoliamo sul mito della socialdemocrazia scandinava tipico degli anni ’70 e veniamo ad anni più vicini a noi. Risale più o meno al 2005, alla vigilia del governo Prodi, l’ultima sbandata del centrosinistra per le meraviglie del welfare vichingo. All’epoca Luigi Spaventa – ex deputato del Pci – bacchettava il Belpaese su Repubblica: esiste un modello «mediterraneo – spiegava – in cui l’Italia si colloca, che riesce ad essere al tempo stesso poco efficiente e poco equo; e, al suo opposto, uno scandinavo, che è sia efficiente sia equo». E giù dati per spiegarci quanto siamo primitivi noi e quanto sono fichi gli altri. Più recentemente, e già in ambito Pd, Pietro Ichino ha sponsorizzato un suo «progetto ispirato alla flexsecurity scandinava» (eh?). Nel settembre scorso, invece, Riccardo Iacona ci ha portato, in una puntata di Presa Diretta dedicata alle quote rosa, proprio in quella Oslo messa a ferro e fuoco da Breivik. Gli italiani, ci spiegava il giornalista, sono arretrati rispetto alla questione femminile. «Ma c’è un paese in Europa – aggiungeva – dove questa limitazione culturale è impedita per legge». E lì venivamo trasportati a Oslo, «una città bellissima, con le case in mezzo al verde e davanti un mare da mozzare il fiato». Da quel momento partiva tutta una sfilza di donne manager preparatissime, colte e raffinate in mezzo a papà svirilizzati, rotondetti e gioviali che portano a spasso i passeggini.

“L’urlo” del mondo perfetto
Questa sociologia alla Michael Moore («Guardate come si vive bene in Canada, lasciano persino la porta di casa aperta») lascia il tempo che trova. Anche perché si basa su una finta idea di felicità, basata sui poliziotti hippy e il traffico ordinato, che non tiene conto delle reali dinamiche sociali. A leggere bene la storia della Scandinavia, del resto, gli elementi per demolire il mito progressista non mancano. Tendenzialmente poveri di storia, di passioni, di rivoluzioni, i popoli nordici mostrano qua e là emersioni culturali isolate ma deflagranti. In Norvegia, ad esempio, la cultura nazionale è rappresentata da Knut Hamsun (certo “impresentabile”, per ovvi motivi, in un quadro di ordinata democrazia liberale) e i due grandi irrequieti Henrik Ibsen ed Edvard Munch. Anime non pacificate e dagli sguardi inquieti. Lo stesso potrebbe dirsi per lo svedese Johan August Strindberg o per il danese Soren Kierkegaard, geni con gli occhi fissi nell’abisso.

Uomini che odiano altri uomini
Più recentemente, oltre agli incubi di sfruttamento e perversione dello svedese Stieg Larsson, la cultura del nord Europa ci ha fornito al massimo i ritmi allucinati del black metal. Di cui, beninteso, in questi casi si parla per lo più a sproposito. Ma, certo, se l’unica creazione culturale originale di un popolo è una subcultura popolata di ossessioni sataniste e pagliacciate gotiche qualcosa che non va ci sarà pure, no? Si può, ovviamente, anche far finta di nulla. Almeno fino al momento in cui non ci si trova di fronte a massacri come quello della scuola di Kauhajoki (11 morti) o l’altro, simile, della scuola di Jokela (9 morti). Sono le Columbine finlandesi, la soluzione “americana, troppo americana” alla crisi di tutta una generazione, incapace di trovare spazio, sfogo, luce nell’ovatta del mitico welfare che viene dai ghiacci. Lì i poliziotti non hanno armi, certo, ma in compenso gli studenti sanno come trasformarsi in Charles Bronson.  Certo, non tutta la gioventù scandinava è composta da pazzi omicidi. Da un bel po’ di aspiranti suicidi sì, però. Le statistiche, a riguardo, raccontano di dati impietosi. Proprio in Finlandia la situazione sembra risentire particolarmente delle condizioni climatiche, tanto che gli specialisti parlano ormai di Sad (Seasonal affective disorder), un particolare tipo di depressione legato alla mancanza di luce e al freddo invernale. E quando per sei mesi non vedi il sole può capitarti di pensare che piste ciclabili e quote rosa, in fondo, non fanno la felicità.

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