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Vittorio Sgarbi è un genio con una capacità unica di riconoscere la bellezza. E ora torna con un libro sulla montagna

Il critico d'arte

Vittorio Sgarbi è un genio con una capacità unica di riconoscere la bellezza. E ora torna con un libro sulla montagna

Cultura - di Rocco Familiari - 15 Dicembre 2025 alle 10:20

Mentre è ancora in corso la dolorosa vicenda che riguarda la vita privata di Vittorio Sgarbi, personaggio pubblico per eccellenza e pertanto soggetto-vittima della curiosità altrui, vale a dire la richiesta avanzata da una delle figlie affinché venga nominato un amministratore di sostegno per il padre che non sarebbe più in grado di badare a se stesso, esce, per i tipi de La Nave di Teseo, la raffinata casa editrice diretta da sua sorella Elisabetta, l’ultimo (per ora) libro del grande critico, “Il cielo più vicino – la montagna nell’arte”. Ignoro se la figlia in questione sia persona acculturata o meno. Se lo fosse, potrebbe forse conoscere l’episodio – vero o inventato non importa, ma esemplare – che riguardò, esattamente 2.400 anni fa (nel 406 a.C.), il sommo drammaturgo Sofocle, anche lui condotto davanti al giudice da un figlio (Iofonte) in quanto da questi considerato non più compos sui. Ebbene, fu sufficiente la lettura dell’ultimo dramma scritto da Sofocle, Edipo a Colono, a convincere il magistrato dell’infondatezza della richiesta avanzata dall’incauto e ingrato figlio. Lungi da me l’idea di suggerire una linea difensiva ai legali di Vittorio Sgarbi, ma se, putacaso, decidessero di portare in aula questo volume dedicato alla pittura paesaggistica, di quel particolare tipo di paesaggio che è la montagna, sono certo che anche i giudici investiti del caso, sarebbero in grado di chiuderlo immediatamente…

Vittorio Sgarbi e tutte le doti fuori dal comune

La caratteristica che rende Sgarbi quasi unico fra i grandi critici d’arte passati e presenti, non è la straordinaria cultura (posseduta anche da Berenson o Wölfflin o Panofsky o da Zeri, per citarne solo alcuni) o la strepitosa memoria visiva che gli consente di individuare immediatamente i collegamenti necessari a proporre un’attribuzione plausibile, facendone un connoisseur di rara acutezza (dote comune al già citato Zeri o a Maurizio Marini, impareggiabile studioso di Caravaggio), o l’inesauribile curiosità che, unita a un’energia assolutamente fuori dal comune, lo porta a esplorare anche i luoghi più sperduti del paese nei quali riesce sempre a trovare qualcosa che lo appaghi (curioso lo era anche il solito Zeri), ma la smisurata passione, il profondo amore che egli nutre per le opere d’arte, di ogni epoca, sia quelle create dai sommi maestri sia quelle più modeste, al limite dell’artigianato, purché frutto di un’autentica urgenza espressiva. Più che un critico, uno storico, un collezionista, Sgarbi è uno sciamano dell’Arte, e la sua Religione è la Bellezza.
E i suoi scritti, raccolti nei numerosi volumi fin qui usciti, o pubblicati sulle riviste alle quali collabora (preziosi i suoi interventi, purtroppo soltanto quindicinali, sull’inserto “Io donna” del Corriere della Sera, unica ragione per cui anche un uomo possa attenderne impaziente l’uscita…) o nei cataloghi delle tante mostre curate (con scelte e accostamenti che aprono sempre squarci inattesi e permettono di guardare anche le opere più note da angolazioni diverse), sono la puntuale testimonianza del suo “genio”.

Il libro dedicato alla montagna nell’arte

Anche in quest’ultimo caso, il volume dedicato alla montagna in pittura, la reazione del lettore è di sorpresa, di felicità e gratitudine. Perché Sgarbi ci aiuta a conoscere in profondità, interpretare, e perciò godere appieno, opere d’arte ignote o spesso ammirate superficialmente. Egli è consapevole che la bellezza non salverà il mondo, come lo era Dostoevskij, al quale viene attribuita l’affermazione. Erroneamente. Al principe Mischkin (l’idiota del grande romanzo con questo titolo) in due occasioni infatti viene rivolta la domanda se la bellezza potrà salvare il mondo, ma egli non risponde. Sgarbi però sa che senza la Bellezza la vita non ha senso, se ne sia coscienti o meno. Ed egli vorrebbe diffondere il culto della Bellezza ovunque, farne partecipe il maggior numero possibile di persone. E’ forse per questo che si candida continuamente ad amministrare delle città, piccole o grandi. Se potesse, sono certo che vorrebbe fare il sindaco di tutti i paesi d’Italia… E, come educatore al senso della Bellezza, è impareggiabile. Ho avuto il privilegio, per un certo periodo, di poterlo frequentare con una certa assiduità, quando allestì il padiglione Italia alla Biennale di Venezia del 2011, rivoluzionando i criteri seguiti fino a quel momento (e anche dopo di lui). Rifiutò infatti di scegliere personalmente gli artisti italiani da esporre e chiese a duecento scrittori di indicargli essi dei nomi, convinto che in tal modo avrebbe aperto le porte della prestigiosa istituzione anche ad artisti non noti, ma di qualità. La sua Biennale si intitolava appunto “L’arte non è cosa nostra”. Io ebbi modo così di segnalargli un anziano pittore siciliano di vaglia, Luigi Ghersi, autore di opere notevoli in Sicilia (fra cui due murali per l’università di Messina, uno dei quali raffigura un personaggio del capolavoro di D’Arrigo, Horcynus Orca), di cui espose a Venezia un grande trittico. Gli feci conoscere anche un artista romano, geniale ma quasi del tutto sconosciuto, Luigi Nanni, del quale ospitò, a Roma, a Palazzo Venezia, una scultura, inquadrandolo immediatamente nel filone di postespressionisti o comunque collaterali all’Espressionismo, fra i quali spicca lo svizzero Varlin (del quale Sgarbi aveva curato una retrospettiva anni prima). Il comune amico Predrag Matvejevic segnalò invece Antonio B. Fraddosio, il quale portò a Venezia una potente scultura “Bandiera nera nella gabbia sospesa”. Ho voluto ricordare tutti e tre gli artisti perché molte loro opere (complessivamente quasi un centinaio) costituiscono parte della mia donazione alla “Casa della Cultura Pietro Familiari” di Melito Porto Salvo, nella convinzione (condivisa peraltro anche da Sgarbi) che lo sviluppo materiale, economico, di un paese, non può avvenire se non c’è in parallelo (forse anche prima) uno sviluppo culturale. Il borgo più noto di quel Comune, situato sull’estrema punta dello stivale, è quel Pentedattilo dipinto da Escher in più incisioni per la singolare configurazione: è incastonato infatti dentro una roccia sulla cui sommità sorgeva il castello dei Marchesi Alberti. E che naturalmente Sgarbi conosce e cita nella scheda dedicata al pittore, da lui definito “incisore e creatore di mondi distorti”, di cui ricorda proprio il viaggio che lo condusse, insieme con l’amico Haas-Triverio, in Sicilia e nel meridione d’Italia (esiste una rara fotografia, scattata dall’amico, di Escher di fronte alla rocca di Pentedattilo).

Le doti umane del critico d’arte

Ebbene, in quel periodo ho potuto constatare la sua generosità, aperto com’era alle proposte più varie, che peraltro vagliava con scrupolo, ma senza pregiudizi. Ho dovuto, con rammarico, rinunciare a quella frequentazione, non riuscendo a reggere i suoi ritmi…, assolutamente sovrumani. Non è una leggenda infatti che egli sia perennemente in movimento, capace di farsi aprire alle due di notte una chiesetta sconosciuta situata in qualche desolata landa, per poter vedere un frammento di affresco o un quadro negletto dai più, nel quale il suo infallibile occhio riconosce invece la mano di un maestro.
Questo libro è anche una ricerca, nella storia della pittura, del concetto, dell’idea, dell’infinito. Non a caso in copertina è riprodotto il famoso “Viandante sul mare di nebbia” di Friedrich, nel quale il grande pittore romantico dipinge un uomo di spalle che rivolge lo sguardo all’immensità che ha di fronte. Immediatamente, quasi per un riflesso condizionato, la mente corre a Leopardi, alla sua composizione più famosa, “L’infinito”. Risulta di estremo interesse un’analisi comparata perché consente di mettere a fuoco la differenza “ontologica” fra le due forme d’arte, la pittura e la poesia. Fra due modalità espressive cioè, quella “concreta”, che usa la materia, il colore, e l’altra, “astratta”, che usa il linguaggio. La parola non può esprimere l’infinito. Può soltanto “dirlo”. Evocarlo. Sta poi all’immaginazione del lettore o dell’ascoltatore figurarselo (“io nel pensier mi fingo”). E’ un infinito interiore, non esteriore. E, a Leopardi, l’idea viene suscitata dal limite, dall’ostacolo, la “siepe”, “che il guardo esclude”, dietro cui il poeta si “finge” “sovrumani silenzi e profondissima quiete”. Nel quadro di Friedrich, puntualizza Sgarbi, “l’uomo contempla la natura e noi siamo spettatori che contemplano l’uomo che contempla, nella stessa posa … Nella poetica matura di Friedrich c’è la consapevolezza che non solo nella montagna, nel mare, nella luce, nella nebbia c’è presenza di Dio. Dio sta nell’uomo che contempla gli elementi della natura … Dio sta nel pensiero dell’uomo, che sa la sua precarietà, la sua finitezza e, perciò, si fa divino”.

Ma è sorprendente quanto dice lo stesso Friedrich: “Il pittore non deve soltanto dipingere ciò che vede davanti a sé ma anche ciò che vede in sé. Se però in sé non vede nulla, tralasci pure di dipingere ciò che vede davanti a sé.” Sta dicendo in pratica che, di fronte al paesaggio che ha ispirato la poesia di Leopardi, un pittore dovrebbe essere capace di dipingere ciò che la siepe nascondeva e che il poeta “nel pensier si finge”, vale a dire ciò che vede in sé. Sgarbi coglie l’assoluta novità di tale pensiero: “Così profondamente sconvolgente e moderna è questa concezione dell’arte che, dopo l’interesse dei contemporanei colti, dovette passare più di un secolo perché se ne intendesse il vero significato”. E cita Leopardi senza peraltro soffermarsi su un parallelismo che deve essergli parso scontato. Ma le conclusioni per così dire “ideologiche” il critico le aveva chiarite nell’introduzione al volume, una sorta di manifesto della sua personale estetica: “L’arte tende a istituire un universo proprio e chiuso in se stesso, con proprie leggi interne che mirano a determinare una seconda natura. Nelle sue espressioni più sublimi, l’arte punta all’annullamento della natura, a sostituirsi a essa o a riprodurla a un tal grado di perfezione da farla dimenticare…

Il tema della Fede e di Dio

L’arte finisce in se stessa e non rimanda a nessuna realtà esterna, anche se apparentemente evocata.” Concetti illuminanti che dovrebbero essere insegnati a scuola già nelle prime classi per abituare i ragazzi a “saper vedere” (era il titolo di un saggio di Marangoni, ormai dimenticato, ma sempre valido). La considerazione più radicale Sgarbi la fa quando entra nel tema specifico del suo excursus, ed è una confessione di fede, profonda, nella potenza dell’Arte: “L’arte ha dato un volto alle emozioni che animano chiunque si avvicini alle Alpi … le cui vette creano effetti straordinari, sorprendenti, come fossero creazioni artistiche, ma creazioni di Dio, di un Dio che diventa artista.” Non è sufficiente perciò essere Dio per creare gli effetti descritti, ma occorre essere un Dio artista. Mi fa tornare in mente quanto si usa dire per sottolineare la grandezza inarrivabile di Bach. Non l’affermazione più conosciuta e cioè che Bach è la sola prova inconfutabile dell’esistenza di Dio, ma quella che sostiene che “Bach è il solo uomo a cui Dio deve qualcosa”.
Il volume è composto di ventitré “schede” riferite nel complesso a una trentina di artisti, quelli che Sgarbi considera emblematici oppure obbligati e, comunque più vicini alla sua sensibilità. Gli “obbligati” sono i vari precursori: Giotto in quanto il primo pittore ad avere dipinto una montagna, nel ciclo di San Francesco, Masolino da Panicale il primo paesaggio, e così via. Ma naturalmente la scelta definisce anche il perimetro delle predilezioni dell’autore. Illuminante a tal proposito il capitoletto conclusivo intitolato “La misura dell’anima”:
“In queste pagine ho cercato la montagna che Giotto, Piero e Masolino avevano trovato: quella visione interiore che si fa visione del reale. Così ho capito ciò che non avevo visto, e ho visto ciò che non capivo. La montagna dà forma a quello che cerco e, sovrastandomi, mi chiama ad attingere alla mia richiesta di spirito, alla confidenza con Dio; il mio pensiero tenta di salire oltre i luoghi che i miei piedi e il mio corpo possono toccare, verso ciò a cui giunge la parte non materiale: l’immateriale Avverto il privilegio di sostare su queste vette e di vivere un rapporto così stretto con il cielo: stare con la testa nel cielo ci rende divini.
Qui ha preso forma l’idea di un viaggio nella montagna attraverso sette secoli di pittura: la mia esperienza della realtà diventa esperienza spirituale, anche se il punto che cerco non si lascia possedere, anzi arretra mentre mi avvicino, e mi conduce fin sulla soglia dell’interiorità. La strada eccede le mie forze, e non mi resta che dar conto dei miei limiti, più vasti di quanto immaginassi perché la montagna è rivelazione del limite – e, nel limite, misura dell’anima.”
Se la “misura dell’anima” di Sgarbi – il suo limite – è questa lunga, appassionata, commovente anche, riflessione su ciò che sfugge allo sguardo, ma non all’occhio interiore, direi che è la migliore dimostrazione della sua intatta capacità di “vedere oltre”, e di comunicarlo a noi.

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