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Politiche superate

Serve una difesa all’altezza delle nuove sfide. I peggiori nemici della pace? Sono i pacifisti

Politica - di Mario Bozzi Sentieri - 5 Dicembre 2025 alle 20:34

I pacifisti sono i peggiori nemici della pace: storia vecchia eppure di stringente attualità, viste le recenti  trasformazioni  dei sistemi a  difesa delle infrastrutture critiche e della sicurezza dei cittadini. Evitando di trincerarsi dietro le bandiere del disarmo  e di un pacifismo ad oltranza è allora urgente prendere atto – come ha dichiarato il Ministro della Difesa, Guido Crosetto, in occasione dell’audizione congiunta in Commissione Difesa per la relazione sul Documento Programmatico Pluriennale della Difesa per il triennio 2025-2027 – dei ritardi dei nostri sistemi di difesa: “Sono decenni che non ci occupiamo di tutte queste cose e ora bisogna correre”. E correre significa dotare l’Italia di una protezione adeguata ai rischi contemporanei, costruendo una difesa capace di muoversi in tutti gli ambiti operativi (dalle aree urbane al mare, dai fondali allo spazio, fino ai nuovi scenari ibridi) nel contempo facendo crescere – a livello di più vasta opinione pubblica – una maggiore consapevolezza su queste tematiche e sulla necessità di dare risposte condivise, adeguandosi al mutare degli scenari.
Lo stesso Crosetto ha ricordato come gli attuali assetti della difesa rispondano a logiche ormai superate e che perciò sia necessaria una riforma complessiva. Una proposta organica sarà presentata alle Camere all’inizio del 2026, con l’obiettivo di dare vita a un modello duraturo e condiviso, capace di sostenere la trasformazione necessaria negli anni a venire.
Niente – in questo ambito – avviene per caso. A cominciare dal conflitto in Ucraina, che  rappresenta un laboratorio evidente dei nuovi scenari bellici: droni sempre più sofisticati, capacità tecnologiche decisive, guerra elettronica e strumenti automatizzati. 
Crosetto ha evidenziato come “il conflitto ucraino è divenuto una ‘war of drones’ caratterizzato da un sempre più rapido ciclo di innovazione tecnologica”. In questo quadro “le tecnologie emergenti e dirompenti assumono un ruolo chiave nelle dinamiche strategiche e militari industriali e la crescente accessibilità a nuove tecnologie consente anche a soggetti ostili di acquisire strumenti avanzati a basso costo difficili da identificare e contrastare, come droni e minidroni”.
Siamo nel pieno di una “war of drones” che dimostra quanto l’innovazione sia ormai centrale nei teatri operativi e rispetto alle “retrovie” produttive.
Droni, cyberspazio e scudo missilistico, ovvero lo scudo spaziale di difesa missilistica e anti-drone di cui l’Italia dovrà dotarsi nei prossimi anni: sono queste le nuove frontiere della difesa nazionale, indicate nel  Documento Programmatico Pluriennale della Difesa per il triennio 2025-2027
 “Vanno allora  aumentate le forze armate – ha specificato il Ministro della Difesa –  ma va aumentata anche la qualità con professionalità che non si trovano attualmente al loro interno. Ho bisogno di strumenti che mi consentano di avere le risorse che sono necessarie per implementare alcune specificità, anche utilizzando dei civili”.
Il riferimento principale è ai professionisti della cyber-sicurezza, ormai pilastro della difesa dalla guerra ibrida. La leva volontaria consentirebbe di creare un bacino di riserva, “una riserva selezionata” pronta e formata, in grado di intervenire a supporto in caso di crisi o emergenze.
La nostra realtà nazionale non è peraltro  un caso isolato. Il dibattito sul servizio militare è tornato centrale in Europa, complice l’aumento delle tensioni internazionali e le recenti decisioni politiche annunciate da Germania e Francia.
La Germania punta ad aumentare la consistenza delle proprie forze armate fino a raggiungere un totale di 260mila soldati entro il 2035, con un piano che comprende l’ampliamento dei riservisti e incentivi all’arruolamento volontario.
La Francia, per bocca del Presidente Macron, è orientata ad accelerare sul servizio militare volontario, la cui la prima attuazione costerà circa due miliardi di Euro nel 2026, con il coinvolgimento di tremila persone nella fase iniziale. Ma l’obiettivo è quello di raggiungere 10mila partecipanti nel 2030 e 50mila nel 2035.
Ma gli esempi di Francia e Germania non sono isolati.  Nel 2025, molti paesi europei stanno rivalutando le proprie strategie di difesa, oscillando tra rafforzamento delle forze armate, modelli di leva volontaria e reintroduzione della coscrizione. Il risultato è un mosaico complesso di scelte diverse, modellate dalle esigenze di sicurezza e dalle dinamiche sociali di ogni nazione.
L’orientamento generale tende oggi verso una maggiore flessibilità e verso il rafforzamento delle forze armate tramite incentivi all’arruolamento volontario. Le reintroduzioni mirate della leva obbligatoria vengono prese in considerazione solo in circostanze eccezionali, mentre cresce la consapevolezza che, nei prossimi anni, le capacità di mobilitazione rapida saranno fondamentali per la sicurezza europea. Da qui la necessità di lavorare a livello continentale per realizzare, in un contesto oggi ancora frammentato, standard comuni, cooperazione reale tra Paesi e un mercato della difesa più integrato, capace di sostenere sia la sicurezza del continente sia la competitività dell’industria.
Molto – come si vede – c’è da discutere e da analizzare, a livello dei singoli Stati nazionali ed europeo, abbandonando finalmente vecchi schematismi ed inadeguate affermazioni di principio. 
Non ne siamo lieti – sia ben chiaro. Ma è doveroso farlo. Avendo ben presenti anche  i “contesti” e le “ragioni” politiche e strategiche di un nuovo europeismo. “L’importante – notava Jean Thiriart, un apostolo dell’Europa unita, armata e protagonista del proprio destino – è fare l’Europa, il resto verrà da sé”. Ma “fare l’Europa” significa affrontare emergenze e fissare priorità ben più stringenti rispetto al passato. La definizione di una difesa comune appartiene a queste priorità. Non rendersene conto vuole dire perdere in partenza la sfida principale che ci sta di fronte:  quella di un destino comune, condannandoci, ancora una volta, in quanto europei, all’irrilevanza.

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