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generale Piazza Tienanmen

Orrori del comunismo

Piazza Tiananmen, il generale che rifiutò di sparare sugli studenti: spunta il video del processo

La clip inedita del processo all’ufficiale che nel 1989 rifiutò di reprimere gli studenti: «Non voglio passare alla storia come un peccatore criminale». Dopo la diffusione del filmato, Pechino rimuove i vertici dell’Ufficio sul segreto di Stato

Esteri - di Alice Carrazza - 19 Dicembre 2025 alle 09:12

Il filmato è rimasto nascosto per trentacinque anni. Ora è riemerso: sei ore di processo militare contro l’unico generale dell’esercito popolare di liberazione che nel 1989 rifiutò di portare i suoi uomini in Piazza Tienanmen. Xu Qinxian, 54 anni allora, comandante del 38° Corpo d’armata, disse no all’ordine del Partito comunista di reprimere con la forza la protesta degli studenti. E spiegò perché: «Non voglio passare alla storia come un peccatore criminale».

L’aula vuota e l’imputato solo

Il video mostra un’aula spoglia, senza pubblico. Xu siede nel recinto degli imputati, indossa una semplice giacca grigia da detenuto ed è circondato dai soldati. I giudici militari incalzano. L’accusa è una sola: insubordinazione.

La risposta del generale è ferma, priva di retorica. «Quando mi fu comunicato l’ordine, spiegai al commissario politico che in caso di scontro con la folla non sarebbe stato possibile distinguere tra buoni e cattivi». E ancora: «Osservai che un comandante che avesse eseguito l’ordine di portare le truppe a Tienanmen avrebbe potuto diventare un eroe forse, ma che se la situazione fosse stata gestita male, quel comandante sarebbe diventato un peccatore e un criminale davanti alla storia».

Un ordine senza carta

Xu Qinxian comandava una delle unità più prestigiose dell’esercito cinese: 15 mila uomini e 400 carri armati. Il Politburo gli aveva ordinato di entrare a Pechino per imporre la legge marziale e spezzare la sfida dei manifestanti. L’ordine, come emerge dalle sue dichiarazioni, non fu mai messo per iscritto. Venne trasmesso verbalmente, uno per uno, ai generali, nei giorni intorno al 18 maggio. Una scelta che oggi pesa come un macigno.

La scelta di coscienza

Ricevuto il comando, Xu convocò i suoi ufficiali. Disse loro che non avrebbe guidato il 38° Corpo d’armata a Tienanmen. Non per calcolo politico, ma per coscienza e per giudizio professionale. «Dissi che l’uso della forza militare era una questione da discutere di fronte al Congresso Nazionale del Popolo, non poteva essere decisa solo in nome del Partito ma dello Stato, per poter resistere al giudizio della storia».

Davanti alla Corte marziale

Davanti alla Corte marziale, nel marzo del 1990, il generale chiarì di aver agito da solo. «A chi mi aveva dato quell’ordine risposi che i superiori potevano nominarmi al comando e anche rimuovermi, ma che non avrei preso parte a quell’azione». Per la Commissione militare centrale quella condotta fu definita «intollerabile». Xu venne immediatamente isolato, privato di ogni contatto con i suoi ufficiali.

La notte del massacro

Altri generali obbedirono. Il 38° Corpo d’armata entrò comunque a Pechino, insieme ad altre unità: in totale 50 mila soldati. Nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989, Piazza Tienanmen fu riconquistata a colpi di arma da fuoco. Morirono migliaia di giovani. Caddero anche soldati mandati allo scontro senza sapere perché: non sapevano che i manifestanti non erano «controrivoluzionari», ma chiedevano un governo più decente e aperto.

Una condanna da cancellare

La pena inflitta a Xu Qinxian fu l’espulsione dall’esercito e cinque anni di prigione. Una condanna relativamente mite, probabilmente pensata per non scuotere ulteriormente la coscienza – già compromessa – dell’Esercito popolare di liberazione che aveva sparato sul popolo. Il regime guidato da Deng Xiaoping scelse il silenzio. Il processo fu segreto, il nome del generale cancellato dalla storia ufficiale. Anche alla sua morte, nel 2021, a 85 anni, ogni tentativo di ricordarne la scelta venne rimosso dal web cinese.

L’eco da Hong Kong

Solo nel 2011 Xu riapparve, rintracciato da un giornale di Hong Kong, quando la stampa nell’ex colonia era ancora libera. Disse di non aver mai avuto rimpianti. Quel quotidiano era l’«Apple Daily», il cui editore, Jimmy Lai, è stato questa settimana condannato per aver partecipato alla difesa della «quasi-democrazia» di Hong Kong.

La fuga di notizie

Il filmato del processo è stato pubblicato a fine novembre su X e su YouTube, piattaforme oscurate nella Repubblica popolare. A rilanciarlo è stato Wu Renhua, storico di Tienanmen ed ex manifestante rifugiato negli Stati Uniti. Wu non ha rivelato la fonte del video e ha sostenuto che la fuga di notizie «è completamente scollegata dalle lotte di potere all’interno del Partito comunista e delle forze armate».

La reazione di Pechino

Il giorno dopo, però, Pechino ha annunciato la rimozione del direttore dell’Ufficio sul segreto di Stato e del suo vice. Nessuna spiegazione ufficiale. Solo un’altra riga cancellata, un’altra porta chiusa in fretta. Ma questa volta il volto del generale Xu Qinxian è rimasto. Seduto, immobile, mentre affida alla storia ciò che il Partito aveva deciso di seppellire.

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di Alice Carrazza - 19 Dicembre 2025