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La polemica Giuli-Veneziani e gli intellettuali di destra: i meriti e le impazienze

L'intervento

La polemica Giuli-Veneziani e gli intellettuali di destra: i meriti e le impazienze

L'analisi - di Carmelo Briguglio - 26 Dicembre 2025 alle 17:39

La polemica tra Marcello Veneziani e Alessandro Giuli, non soltanto perché sono due amici e ho letto i libri dell’uno e dell’altro; anche quelli dai quali dissento, li ho nei miei scaffali. Loro sono intellettuali, io un giornalista con un passato – ormai lontano – di politico. Ma stiamo insieme con i piedi piantati nella “terra degli uomini” della destra. Sono certo: non imiteranno D’Annunzio e Marinetti, facilissimi al duello; e non mi unisco al coro di aspiranti padrini che li sospingono, incluso il professore Cardini, il cui magistero storico – lui fa il modesto – è notevole; quello politico o di petit commis d’etat di Pivetti e Veltroni, no.

Intellettuali “di destra”, non “della destra”

Dello jeu-parti, tra Marcello e Alessandro, non riprendo le parole a punta: colgo il positivo lasciato sul campo che aiuta a capire ciò che conta, oltre il vociare dei tifosi. Il primo punto. Gli intellettuali “di destra”non sono gli intellettuali “della destra”. Perché a destra, a differenza della sinistra (almeno quella che fu) non ha mai attecchito il modello dell’intellettuale organico gramsciano. Sulla “rive droite” si é sempre respirata una psicosfera di libertà sciolta, di un incessante leticare, di nessun dovere verso la politica (pur non disdegnando qualche “particulare”), figurarsi verso il governo: poi al “proprio” non si perdona nulla, cascando nel paradosso di non vederne i meriti, in primis quello del mirino sulle rendite di posizione che da sempre sono oggetto delle lamentazioni dei “destri”.

A sinistra i disobbedienti all’indice, a destra la regola degli irregolari

Il pensatore di destra non ha come specchio i suoi omologhi del Progresso, lì il disobbediente va all’indice: vi finì Pasolini, nome che in questi giorni ricorre; e quando Guttuso, celebrità red (prima noir) fu chiamato a testimoniare in tribunale in favore o del Partito (Berlinguer) o della Cultura che diceva il vero (Sciascia), scelse il primo contro la seconda: a ragione, don Leonardo gli tolse il saluto e per sempre. Invece a destra vige la regola degli irregolari: né Veneziani, né Giuli, le sfuggono. Preceduti da grandi o grandissimi come Prezzolini, Berto, Burri, Montanelli, i due contendenti non sono stati “uomini di partito”: a maggior ragione il ministro della Cultura che fu spietato critico delle Tesi di Fiuggi (ma senza la svolta di Fini, oggi ci non sarebbe questo governo); mentre Veneziani – un tempo viciniore di An – ne fu interprete nella prima azienda culturale del Paese, la Rai, di cui fu consigliere di amministrazione, oltre che di Cinecittà.

Le difficoltà di Veneziani in Rai, il regista-killer e le “altrui scale” di Giuli

Di recente Marcello, molto indipendente anche nel suo giornale, ha confessato con grande sincerità la difficoltà incontrate nell’incarnare le idee nella maledetta politica, che resta “sangue e merda” (copyright Formica): “Ho pensato in un momento della vita in cui avevo accettato di impegnarmi in un ruolo pubblico (peraltro non cercato) che si potesse tentare di risalire la china, di sperimentare nuovi format, nuovi autori, nuovi personaggi, andare oltre il classico varietà e il rancido talk show. Ma nell’ardito cammino della sperimentazione ti guardano male, come uno che dissipa un bene reale e immediato del presente per inseguire un bene nebuloso e ipotetico dell’avvenire”. Ecco: Veneziani va capito, ma lui deve comprendere Giuli e quelli che si misurano con incomodi simili, anzi maggiori. Il ministro fa il ministro, con onore e autorevolezza, ma sperimenta “come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”; precisamente gli scalini di un dicastero che è stato dominio “altrui” per troppi anni: cerca così di vincere molte postazioni di comando, impolverate e resistenti, che non è facile smontare e ancora più difficile sostituire: la messe é molta e i mietitori sono pochi; lo stesso fu per Genny Sangiuliano il quale ha pagato, non la scappatella, ma l’inversione di tendenza che aveva cominciato. Giuli risale, passo dopo passo – facendo notevoli cose in contro-tendenza – l’eredità di un monopolio progressista il cui simbolo diabolico è il fracco di soldi pubblici dati a un film inesistente, di un regista fasullo, ma reale assassino: il finanziamento della gestione Franceschini al killer di Villa Pamphili va oltre lo storytelling di una pellicola horror; rappresenta la caduta estetica del modello progressista, chiuso e dispendioso.

Intellettuali “ortodossi” senza inchino: la fatica del costruire

Meno asimmetrici alla politìa sono Pietrangelo Buttafuoco, sbarcato a Venezia dove, con inattaccabile competenza, presiede la Biennale e Luciano Lanna – autore (con Filippo Rossi) del più bel libro sulla cultura di destra, molto letto anche a sinistra (“Fascisti immaginari”, Vallecchi) e di un poderoso volume su Augusto Del Noce – che si accontenta di fare (ha superato un “interpello”), con fatica e dignità, il direttore del Centro per il libro; così Alessandro Campi, professore e scienziato della politica, mandato a presiedere l’Istituto per la Storia del Risorgimento e Umberto Croppi che ora trasferisce l’esperienza innovativa e manageriale, maturata in Quadriennale e in Federculture, all’Accademia delle Belle Arti di Roma di cui oggi tiene le redini: di questi eccellenti, singolari, “droite” – Veneziani li conosce tutti – i più ne apprezzano profilo, spessore, capacità: fanno il loro lavoro intellettuale in trincee difficili, con pochi lustrini e lo stile di “ortodossi” senza inchino. La seconda: il Tempo scorre e l’ansia di non perire – perchè “è subito sera” – altera i giudizi, non perdona e non si perdona; impedisce di perdonare. Ma nel comando di uomini e cose il tempo ci vuole: per fare, disfare, rifare. Tanto tempo. Manca spesso la paziente attesa; che é la lezione degli umili, delle statuine dei nostri presepi: del pastore, del contadino, del pescatore, del fornaio. E di Maria che Papa Leone nel suo presepio ha voluto “in attesa”. Figure di mitezza che conducono al realismo, alle verità dei semplici: pazienza è “patire”; il necessario patire per costruire.

La pazienza dell’attesa, l’ad-filosofo e la qualità di Tele-Meloni

L’insofferenza vela il fatturato visibile e quello in fieri. Qualche mese fa, ho segnalato all’interessato la critica spiritosa di un collega che ironizzava sul “filosofo” chiamato a fare il numero uno alla Rai. Mi è tornata pacata, non svicolante, la replica dell’ad, il cui eloquio è raro: “In realtà il ‘filosofo’ sta facendo il più ambizioso piano industriale della Rai degli ultimi 30 anni ed il più grande piano di trasformazione immobiliare con il progetto di costruzione a Milano del nuovo centro di produzione più avanzato in Europa, l’operazione di bonifica di Mazzini e l’ammodernamento di tutte le sedi produttive…Il tutto con il 30% in meno di risorse rispetto a 10 anni fa. Evviva i filosofi :)”. Intanto, in tema di televisione pubblica, il Tg 1 di Chiocci sopravanza in ascolti la concorrenza ed è in crescita, anche di qualità: sarà Tele-Meloni, ma i crudi e coraggiosi reportage da Gaza io non li ho visti da nessun’altra parte, a dirne una. Per confermare: tempo ci vuole. Giuli, e l’esecutivo di cui fa parte, ne hanno bisogno per raccogliere e Veneziani per giudicare con maggiore serenità. Terza nota, brutalmente: Alessandro ha venti anni meno di Marcello. Non possono pensarla uguale. Non devono. Ma tra generazioni del pensiero non ci può essere sentimento oscuro, piuttosto occhio benigno; reciproco. Serve anche incrementare la produzione di ironia e auto-ironia che, rispetto all’altro campo, a destra non manca. Alla fine, si farà un bilancio onesto. I voti li daranno gli italiani. Manca poco.

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di Carmelo Briguglio - 26 Dicembre 2025