L'intervista
«Viviamo l’età dell’incertezza. La priorità è rafforzare il legame tra Europa e Usa». Parla Maurizio Molinari
L'editorialista e saggista parla di come lo scossone Trump sta cambiando il mondo, della fine dell'ordine globale del Novecento e del perché Mamdani non può essere la risposta alla crisi della sinistra
Un atlante geopolitico per provare a decodificare le attuali fibrillazioni del contesto politico internazionale. Ce lo offre l’editorialista, già direttore della Stampa e di Repubblica, Maurizio Molinari, con La scossa globale. L’effetto-Trump e l’età dell’incertezza (Rizzoli). Oltre trecento pagine per un viaggio nella tempesta geopolitica «che impone a tutti – si legge nell’introduzione – di riscoprire il valore del tempo, della conoscenza e dell’interpretazione dei dati per comprendere i pericoli che ci minacciano, ma anche per cogliere le opportunità».
Direttore, lei definisce quella che stiamo vivendo «l’età dell’incertezza». In che modo il presidente americano Donald Trump ha determinato questa svolta geopolitica?
«Cina e Russia sono impegnate da tempo nel tentativo di cambiare l’ordine di sicurezza internazionale uscito dalla Guerra Fredda, perché ritengono che abbia favorito l’Occidente. Entrambe hanno una postura offensiva. Per affrontarle, Joe Biden aveva preferito giocare in difesa, assieme agli europei, mentre Trump ha rovesciato la posizione Usa: ritiene anche lui che l’ordine di sicurezza vada cambiato. La nuova partita globale è iniziata così. La scossa arriva da lì. Siamo dunque in piena competizione con l’ordine internazionale sospeso in attesa di un nuovo equilibrio. E la transizione potrebbe durare anni».
Quali le previsioni possibili?
«Uno scenario può essere che le tre potenze trovino un nuovo equilibrio: di potenza e influenza. C’è però anche il rischio che entrino in conflitto in ordine sparso: tutte contro tutte oppure due contro una. Il terzo scenario è invece lo stato di conflittualità permanente, quello che al momento stiamo vivendo».
Dunque, l’ordine mondiale frutto del Novecento, con le sue regole, è ormai tramontato?
«Assolutamente sì. L’ordine multilaterale creato dagli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale non sta più in piedi, le organizzazioni multilaterali sono indebolite, vulnerabili, inefficaci. La maggioranza dei Paesi dell’Onu segue Russia e Cina, sebbene siano stati gli Usa e le democrazie a creare il sistema delle Nazioni Unite. E Xi Jinping lavora a un nuovo multilateralismo che possa favorire i Paesi non democratici. Siamo davanti a un corto circuito».
Il prezzo che rischiamo di pagare in questa transizione globale è un indebolimento del modello liberaldemocratico?
«Credo si debba essere ottimisti. Le democrazie sono sempre le più forti, perché garantiscono prosperità e sicurezza come nessun altro. Possono contare sulla forza incontenibile del rispetto delle libertà. E, allo stesso tempo, rappresentano il mercato più ricco del pianeta. Il punto è quale assetto dare alle democrazie e in che maniera devono migliorare coesione e collaborazione. Noi europei dobbiamo porci una domanda fondamentale: come affrontare con la Ue in maniera efficace l’attuale scossa globale?»
Può suggerire la risposta?
«Credo che la priorità debba essere rafforzare il legame euroamericano. Questa è la formula che Giorgia Meloni rappresenta come, prima di lei, ha fatto Draghi. Le democrazie occidentali devono restare unite e avere la forza di affrontare le nuove sfide. È fondamentale affermarlo, soprattutto in questo momento, segnato dalla tentazione di vedere gli europei muoversi in solitario. Penso a Mélenchon e Le Pen in Francia, Sánchez in Spagna, l’AfD in Germania. Dividersi è l’errore più grande».
Che postura deve darsi un’Europa che non riesce a essere protagonista davanti alle crisi più rilevanti, come a Gaza e in Ucraina?
«Il primo livello, lo ripeto, è mantenere l’intesa euroamericana indipendentemente da chi è a capo dei singoli governi. Nelle grandi crisi è necessario agire assieme. L’errore di Macron e Starmer è stato quello di proporre il riconoscimento dello Stato palestinese autonomamente, in contrasto con gli Accordi di Oslo, rischiando di nuocere al negoziato Usa che poi ha portato all’attuale tregua tra Israele e Hamas. Meloni e Merz invece hanno fatto l’opposto, affiancandosi a Trump. Stessa cosa vale per l’Ucraina: se Europa e Usa si allontanano, Kiev è più debole e i russi avanzano. Lo stiamo vedendo proprio in questi giorni. Serve costruire, dunque, una nuova intesa, a partire dalla sicurezza, tra le due sponde dell’Atlantico. Solo così si può attraversare con successo questa fase di transizione».
Intanto sia la società europea che quella americana sono lacerate dallo scontro tra estremismo woke e istanze sovraniste. È possibile ricomporre tale frattura?
«Il populismo aggredisce la democrazia contestando il ruolo dei Parlamenti. Il populismo, di ogni colore, è basato sull’idea della superiorità del rapporto diretto fra il leader e il popolo a scapito del Parlamento. Un paradigma che stravolge Montesquieu e lo Stato di diritto, affermando che il potere esecutivo è più importante del legislativo e che il potere giudiziario è un ostacolo. Questo è il pensiero populista: a destra come a sinistra, non c’è alcuna differenza».
Da dove proviene questo risentimento?
«Il populismo è forte perché ci sono dei problemi veri, profondi, che gli Stati democratici non riescono a risolvere. Prima questione: le diseguaglianze economiche e sociali, ovvero l’impoverimento della popolazione. Seconda questione: la corruzione. Terza questione: l’immigrazione. Anche se sono temi difficili, sono le forze politiche tradizionali a doversene occupare. Questo è il motivo per cui la democrazia esiste. I leader politici che amano la democrazia devono studiare le soluzioni: devono mettersi a tavolino, dedicare tempo alla riflessione ed elaborare soluzioni innovative. È difficile? Sì. Ma la democrazia è sempre la strada più difficile, ma anche la migliore. Più tardi lo faranno, più il populismo crescerà».
Intanto, negli Stati Uniti è nata una nuova stella politica che piace tanto alla sinistra italiana: Mamdani, l’appena eletto sindaco di New York. È una proposta esportabile?
«In termini politici americani, Mamdani è un radicale di sinistra che sfida il Partito democratico. Steve Bannon, che è stato il consigliere di Trump durante il primo mandato, si è detto estasiato da Mamdani perché vede in lui l’inizio di un’insurrezione contro i leader democratici. Il punto è proprio questo: se Mamdani e quelli che la pensano come lui si impossessassero dei liberal, il partito democratico Usa che noi conosciamo, quello di Kennedy, Clinton e Biden, sparirebbe».
Si spieghi meglio.
«Faccio un esempio concreto. La narrazione anticoloniale che distingue Mamdani è aggressiva, divide il mondo fra oppressi e oppressori dove questi ultimi quasi sempre sono i maschi bianchi. Non è destinata a creare ponti, ma frizioni: non solo nella società americana in genere, ma anche all’interno delle comunità di immigrati che compongono il tessuto del Partito democratico. Perché inevitabilmente porta a contrapporre gli immigrati più recenti alla popolazione residente».
È il solo cortocircuito che riscontra?
«Guardiamo l’economia. Mamdani dice che i mezzi pubblici devono essere gratis per tutti. Passano 72 ore dall’elezione e la governatrice dello Stato di New York, una democratica che ha votato per lui, gli dice che non si può fare perché non ci sono i 600 milioni di dollari necessari. Era uno dei tre nodi fondamentali del programma elettorale. Dunque, Mamdani ha vinto cavalcando – almeno – una bugia. Questo è il populismo di sinistra, pericoloso per la democrazia tanto quanto quello di destra. Certamente, Mamdani ha saputo cavalcare la rivolta del ceto medio contro il rincaro dei prezzi. E siamo sempre da capo: sono le diseguaglianze economiche a portare ceto medio e giovani a votare per le ricette estreme».
La conclusione del suo libro è dedicata a papa Leone XIV e alla sua scelta, sin dal nome, di affrontare il tema delle possibili diseguaglianze connesse alla rivoluzione digitale, oggi trainata dall’intelligenza artificiale. Che cosa apprezza del nuovo pontefice?
«Leone XIV è un vero americano, interprete di una nazione che vuole essere inclusiva, faro di democrazia nel mondo. E Prevost comprende che oggi c’è una ferita aperta: il veleno legato alle parole. Quando afferma che bisogna disarmare le parole, sta dicendo che il linguaggio del populismo è avvelenato, che si usano termini nei confronti del prossimo che si tramutano in aggressioni. E chiede che, nell’era del digitale, si tutelino i diritti degli esseri umani dall’aggressività del linguaggio. Al pari della Rerum Novarum, che seppe riconoscere la necessità della tutela dei diritti dei singoli nella rivoluzione industriale, oggi serve una nuova dottrina sociale per affrontare la rivoluzione digitale».
Cosa si attende dalla prima enciclica firmata da papa Prevost?
«Mi attendo che affronti la necessità di tutelare i diritti dei singoli attraverso il rispetto delle parole. Si tratta di un ingrediente fondamentale della lotta al populismo. Se ascoltiamo i leader populisti di destra o di sinistra, notiamo che con la loro violenza verbale non delegittimano soltanto democrazia e istituzioni, ma fanno male alle persone. Per questo aspettiamo la nuova enciclica, nella speranza che affronti la necessità di formulare le fondamentale morali dei diritti digitali».