L'editoriale
Se la sinistra è “frenata” dal radicalismo degli intellò, la destra è “spinta” dal realismo. Come vuole il suo popolo
Se a sinistra – dopo anni di governismo a prescindere (dal voto) – è scattata la voglia di interpretare adesso la ridotta della contestazione moralista, a destra è maturata l'urgenza di rappresentare il ritorno della Nazione nel "grande gioco": per questo qui non esiste spazio specifico per divagazioni capaci di mettere in discussione le linee guida dell'azione di governo
C’è chi, come lo storico Gianni Oliva, esponente di rilievo della cultura progressista, analizzando come e perché la sinistra abbia rinunciato a raccontare la realtà ne fa un problema «di linguaggio, di coerenza e di chiarezza». C’è chi, come Ernesto Galli della Loggia, autorevole storico di estrazione liberale, registra il problema della sinistra ufficiale in quel suo essere «indifesa» di fronte all’egemonia del radicalismo insoumise (e velleitario) dei duri e puri alla sua sinistra. Sul banco degli imputati c’è sostanzialmente il Pd – e chi se no? – incapace in questo frangente secondo entrambi gli accademici nonché firme de La Stampa e del Corriere della Sera, di unire il campo largo e di presentare una piattaforma minimamente intellegibile al popolo.
Tutto il contrario della destra al governo. Una coalizione che ha dimostrato invece di saper comporre un’addizione algebrica su una piattaforma chiara, unitaria, impermeabile al tempo e alle stagioni ma soprattutto popolare. Qual è il segreto della solidità di questa coalizione rispetto al centrosinistra? La forza delle leadership, certo: con Giorgia Meloni che ha scalato, con il consenso e le battaglie, una gerarchia di per sé contendibile e aperta al ricambio. Tutto il contrario delle dinamiche a sinistra: dove ad emergere negli anni sono stati i veti, i muri e gli impallinamenti “stile” i 101 con Romano Prodi.
A questo “segreto” si aggiunge un popolo altrettanto compatto. Secondo Oliva si tratterebbe di un elettorato, quello di centrodestra, che si accontenta tutto sommato di «una realtà addomesticata»: si farebbe andare bene, cioè, la percezione dei provvedimenti emanati dal governo, salvo poi incolpare gli avversari e i magistrati «se i problemi restano». Per Galli della Loggia non esisterebbe invece un elettorato radicalizzato di destra forte, capace cioè di sganciare la proposta di governo dai propri binari: pena lo smarrimento della propria identità.
Non siamo d’accordo con il primo e lo siamo parzialmente con il secondo. Per un motivo su tutti: l’elettorato di destra-centro non si fa certo abbindolare. È pronto a dare credito perché ha compreso e assimilato il “senso tragico” del momento storico che stiamo attraversando. Se la sinistra politica, come sottolinea giustamente Galli della Loggia, è frenata dal radicalismo utopista dei suoi intellò e dei suoi influencer, la destra – all’opposto – è spinta dal realismo. È questo il minimo comun denominatore fra la classe dirigente e il proprio popolo.
Se a sinistra allora – dopo anni di governismo a prescindere (dal voto) – è scattata adesso la voglia di interpretare la ridotta della contestazione moralista, a destra è maturata l’urgenza di rappresentare il ritorno dell’Italia nel “grande gioco”: per questo qui non esiste spazio specifico per divagazioni o radicalismi capaci di mettere in discussione le linee guida dell’azione di governo. La prove del nove dell’affinità fra rappresentanti e rappresentati? È evidenziata da una differenza macroscopica, rispetto a tutte le esperienze della Seconda Repubblica: mentre nel passato, anche recente, le leadership si consumavano al solo contatto con i palazzi del governo, stavolta – con Meloni – è tutto diverso.
Che significa questo? Che il popolo della destra – capace comunque di stimolare criticamente le forze politiche quando è il caso – ha ben chiaro la posta in gioco, la necessità di governare la realtà fra i marosi di una stagione complessa e inedita. È un popolo esigente, dunque, ma consapevole della situazione disastrosa ereditata; un popolo che ha sancito nelle urne, riempiendole, quel “patto nazionale” con i propri rappresentanti a tutela di una visione del mondo. La sua è una scelta, un meccanismo per attivare quella sovranità altrimenti ostaggio dei benaltrismi. Non è un’astrazione. È ciò che Gaber definiva «partecipazione»: che di certo «non è star sopra un albero…».