Un safari umano, una caccia al Leone, con la tribù dei Mammalucchi di sinistra, spietati e ciechi, sulle tracce dell’allora presidente della Repubblica, che opponendo le napoletanissime “corna” ne respinse gli attacchi in sede giudiziaria ma non in quella politica. Il primo, innocente, costretto a dimettersi per accuse inesistenti da parte della sinistra cannibale, che innescava la macchina del fango e della propaganda giustizialista per poi tirare le reti nelle urne, fu lui, Giovanni Leone. Era la primavera di cinquant’anni fa quando l’allora presidente della Repubblica dal nome ruggente fu accusato di essere il personaggio chiave attorno al quale ruotava lo scandalo Lockheed, illeciti nell’acquisto da parte dello Stato italiano di velivoli dagli Usa. Tutto falso, ma Leone si dimise nel 1978, poco prima dell’inizio del semestre bianco, a seguito della pubblicazione di articoli e inchieste dell’Espresso, richieste di impeachment del Pci, un libro di Camilla Cederna e una campagna di opinione orchestrata da Marco Pannella. Una vera persecuzione giacobina che rovinò l’esistenza a quel professore di diritto eccelso ed educato, napoletano aristocratico, democristiano “di destra”. La lettera di scuse dello stesso Pannella, al compimento dei novant’anni del presidente infangato, descrive meglio di tutto le trame becere della sinistra comunista e bugiarda degli anni Ottanta, i cui eredi, oggi, accusano la destra e il governo Meloni di aver “attaccato” il Quirinale.
“Le siamo grati per l’esempio da lei dato di fronte all’ostracismo, alla solitudine, all’abbandono da parte di un regime nei confronti del quale, con le sue dimissioni altrimenti immotivate, lei spinse la sua lealtà fino alle estreme conseguenze, accettando di essere il capro espiatorio di un assetto di potere e di prepoteri, che così riuscì a eludere le sue atroci responsabilità relative alla vicenda Lockheed, al degrado totale e definitivo di quanto pur ancora esisteva di Stato di diritto nel nostro Paese…”., scrisse il leader dei Radicali.
Il Quirinale nel mirino della sinistra e dei grillini
Dopo di lui, Francesco Cossiga, il “picconatore” finito nel mirino di Achille Occhetto, il liquidatore del Pci, che gli contestava un eccesso di “presidenzialismo” e di decisionismo, l’affiliazione alla “Gladio”, l’organizzazione filo-americana creata per fronteggiare un’eventuale insurrezione comunista, e una scarsa collaborazione con la sinistra: anche in quel caso partì l’offensiva nei confronti dell’uomo del Colle, naufragata nella palude parlamentare. Il Pds guidato da Achille Occhetto guidò la richiesta di impeachment contro Francesco Cossiga nel 1991 con 29 capi di accusa, tra cui il sostegno alla struttura di difesa denominata Gladio, creata per contastare il pericolo comunista, e le sue picconate considerate anti-costituzionali. Tra i firmatari della mozione Luciano Violante, Marco Pannella, Leoluca Orlando e Lucio Magri. Il Parlamento ritenne infondate le accuse, ma Cossiga si dimise comunque il 28 aprile del ’92, due mesi prima della scadenza del mandato.
Poi venne Giorgio Napolitano, il comunista doc, mai amato dalla destra, ma finito nel mirino del M5S e anche della sinistra extraparlamentare, il Popolo Viola. I grillini, nel gennaio 2014, presentarono una formale richiesta di messa in stato di accusa, articolato in nove punti tra cui la “espropriazione della funzione legislativa del Parlamento e l’abuso della decretazione d’urgenza”. I “viola”, invece, si scagliarono contro Napolitano per la svolta “tecnica” seguita all’uscita di scena di Berlusconi, con l’avvento di Mario Monti. Proteste di piazza, improperi, accuse di tradimento…
Ma anche Mattarella, nel 2018, era finito nel mirino di chi oggi si indigna per la destra che si è lamentata per le opinioni espresse dal consigliere del Quirinale Garofano. I grillini, ovviamente. Il 28 maggio del 2018 i vertici del M5s chiesero l’impeachment di Sergio Mattarella con un attacco bifronte, da parte di Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, che chiesero lo stato d’accusa per il presidente della Repubblica con un simpatico siparietto televisivo, da Fabio Fazio. “Bisogna parlamentarizzare tutto anche per evitare reazioni della popolazione”, ha detto Di Maio telefonando a Che tempo che fa di Fabio Fazio. Lo slogan era: “O Savona al ministero dell’Economia o morte”. Di Maio e Di Battista, quel giorno, inconsapevolmente, scelsero la loro morte, politica, ovviamente.