Critiche ipocrite
La sinistra non può dare lezioni a Meloni sulla legge elettorale: sblocchiamo qualche ricordo
Cambiare il sistema con cui andare alle elezioni non è nell’interesse di una parte, come dimostra l'esperienza. Lo scopo è scongiurare governi “ibridi”, premier tecnici e soluzioni di “unità nazionale”, non supportate da scelte degli elettori
“Dimentica le vecchie storie, Pannychis, non hanno alcuna importanza, in questa grande babilonia siamo noi i veri protagonisti” (Friedrich Dürrenmat, La Morte della Pizia, Adelphi, 1988)
Vedo la sinistra – dove si distingue per particolare sforzo mediatico Matteo Renzi, ma a lui torno – contestare l’idea di una nuova legge elettorale a cui intende mettere mano il centrodestra. Ma io avverto forte il dovere di ragionare anche quando e con chi non vuole ragionare. La prima domanda che dobbiamo porci é questa: è legittimo che l’area di governo promuova una nuova normativa elettorale ? La risposta non può che essere affermativa. La Costituzione repubblicana non contiene una disciplina delle elezioni politiche, che infatti sono regolate con legge ordinaria. E’ stata una scelta dei costituenti e si comprende perché. Non c’è una legge elettorale buona per tutte le stagioni. I cicli politici sono segnati da sistemi diversi. E – sappiamo bene – che fare una nuova legge per vincere le elezioni è un pensiero ingenuo, smentito dall’esperienza; la quale, invece, sembra propendere per una sorta di “maledizione” che colpisce le formazioni che intendono “farsi” una normativa a proprio uso e consumo: è una nemesi registrata in più occasioni e dalle parti del centrodestra la conoscono bene.
Vincere o perdere, a turno: il “pareggio” sarebbe un danno per gli italiani
Allora, la coalizione che sostiene Giorgia Meloni – soprattutto il partito della presidente del Consiglio – cosa si propone ? Rispondo con un “ospite inatteso”: dare la possibilità di vincere le prossime elezioni politiche al polo progressista; oltre che al centrodestra, naturalmente. Cioè: soprattutto sulla “rive droite” si vuole vincere o perdere, ma non pareggiare. In una democrazia stabilizzata si prevale o si è sconfitti, a turno, mai per sempre: sarebbe il “pareggio” – per il quale tifano non pochi ambienti obliqui alle culture politiche e alle appartenenze – la vera debacle per ambedue i campi; sarebbe un danno per gli italiani: tutti. Perché ? Perché andrebbe perduto il più importante valore – immateriale, ma che sopravanza ogni altro fatturato dell’esecutivo – che va riconosciuto al governo Meloni: la stabilità. La quale pesa in modo decisivo sul rating economico e internazionale dell’Italia. E’ nell’interesse nazionale che il nostro Paese sia e venga percepito come stabile; è superfluo dettagliarne le ragioni, sono fin troppo note e sviscerate.
Una nuova legge elettorale per garantire una rinnovata bipolarità
Che alle prossime politiche vinca l’accampamento conservatore o il campo largo progressista, non é importante. Perché oggi c’è un governo, con una maggioranza chiara, con una legittimazione che viene dagli elettori; e c’è una opposizione – intransigente e determinata – che aspira a superare le proprie divisioni per competere con la coalizione che ha vinto tre anni fa. E ‘ un dato positivo, che richiama la possibilità, in futuro, di un’inversione dei ruoli, dell’alternanza tra due rassemblement. Con l’attuale legge elettorale, il cosiddetto Rosatellum, dopo l’aggregazione tra Pd e M5S, alle prossime elezioni sarebbe possibile – per alcuni osservatori sarebbe probabile – un risultato di instabilità: ad esempio, maggioranze diverse e contrapposte nelle due Camere. Un esito da scongiurare, alla luce di governi “ibridi”, premier tecnici e soluzioni di “unità nazionale”, non supportate da scelte degli elettori: i risultati li conosciamo.
Questa la motivazione per la quale il centrodestra vuole cambiare la legge elettorale. E’ ben argomentata, bisogna ammettere. E non è nell’interesse di una parte. Quanto al merito, in estrema sintesi: una legge proporzionale con sbarramento, un ragionevole premio di maggioranza, la possibile reintroduzione delle preferenze e l’indicazione di un candidato premier, sono punti su cui si ragiona e non avvantaggiano o danneggiano nessun raggruppamento. Sarebbe una via bipartisan per radicare un rinnovata bipolarità.
Renzi, Bokassa e Zagrebelsky: il caso Italicum che pesa sul Pd
Perché, non c’è sistema o metodo, che possa sostituire la materia prima: i voti degli elettori. In ordine ai contestatori – che non vanno oltre fragili spiegazioni d’ordinanza – sulla sinistra pesa un “passato” che le rende difficoltoso esercitare obiezioni di merito. Nel 2015, il Partito democratico, con leader e premier Matteo Renzi, fece la sua legge elettorale, l’Italicum. Che fu accusata di essere “dittatoriale” per l’eccessiva concentrazione di poteri in mano al presidente del Consiglio: fu varata con voto di fiducia posto appunto da Renzi. Ricordo, per tutti, il pensiero critico del maggiore giurista del campo progressista: Gustavo Zagrebelsky, che affondò con un solo colpo la riforma costituzionale Renzi-Boschi e l’Italicum: “Rischiamo di passare da una democrazia a una oligarchia. La Costituzione di Bokassa non è molto diversa da quella degli Stati Uniti, ma ha una resa diversa, che dipende dal contesto. E questa riforma ha una resa che dipende dall’Italicum” (dibattito a La7, 30.09.2016). Un giudizio inappellabile. Nel 2017, quella legge elettorale fu dichiarata incostituzionale dalla Consulta e non entrò mai in vigore.
Nessuna lezione a Giorgia Meloni
Con questo “passato” può Renzi impartire moniti e lezioni a Giorgia Meloni? Nel 2017, l’Italicum fu sostituito dal Rosatellum, su cui Gentiloni, premier dem succeduto a Renzi, pose la questione di fiducia per farla passare in Parlamento: non c’è ricordo, in tempi recenti, di leggi elettorali approvate con voto di fiducia. Per trovare l’unico precedente nella storia repubblicana bisogna retrocedere a più di 70 anni fa, al 1953: quando Alcide De Gasperi, per superare il durissimo ostruzionismo delle opposizioni di sinistra e di destra, pose la fiducia sull’approvazione della “legge truffa”. Che non scattò perché non raggiunse il quorum previsto per il premio di maggioranza. Adesso il Pd di Schlein non vuole far fare la legge elettorale a Giorgia Meloni. E il duo Renzi-Boschi – la cui riforma costituzionale fu bocciata con referendum dagli italiani alla fine del 2016 – spara a zero sulla premier con un accanimento che sa di un quid di personale e azzarda alti lai che vorrebbero cancellare la memoria collettiva. Di certo, non la mia. Ecco.