Ritorno al reale
Dal Green Deal al “Clean Industrial Deal” per l’Autonomia strategica europea
I rischi evidenti di una transizione ecologica eccessivamente sbilanciata verso gli obiettivi ambientali evidenziano l’urgente necessità di ricalibrarne la direzione
In questi tempi di transizione ecologica e di Green Deal è sempre più evidente come in Europa i presupposti teorici originari della teoria dello sviluppo sostenibile – basati sul necessario equilibrio tra esigenze ambientali, economiche e sociali – abbiano progressivamente lasciato spazio, soprattutto nel nostro continente, a una fase fortemente sbilanciata e ideologica, caratterizzata da un orientamento marcatamente iper-ambientalista. Un modello politico super green che ha spesso mostrato una considerazione insufficiente per le ripercussioni economiche e sociali su imprese, famiglie e comunità locali. In questa fase del Green Deal il continente europeo è stato il Regno della Norma Ambientale, lasciando però ad altri l’Impero della Tecnica, e aprendo così il proprio grande mercato della transizione ecologica e della mitigazione climatica, alle produzioni di componenti e sistemi, soprattuto cinesi. E così in questi anni si sono raggiunti grandi risultati in termini norme per la mitigazione del cambiamento climatico, con stringenti regolamenti e alti costi economici e sociali per la riduzione delle emissioni, e piccoli, e spesso recessivi, risultati di adattamento del sistema socioeconomico europeo alla grande transizione ecologica.
L’Europa, che ha sviluppato un articolato quadro normativo per affrontare il cambiamento climatico – sostenuto dalla sua capacità di micro-gestione regolamentare (dal bando della plastica alla graduale eliminazione dei motori a combustione, dalla strategia “dal produttore al consumatore” agli standard per l’edilizia verde) – e avviare con accelerazione forzata i processi di decarbonizzazione, finalizzati al raggiungimento della leadership della neutralità climatica entro il 2050, rischia ora, e in parte proprio a causa dell’eccesso di norme, di relegarsi al ruolo di grande e accogliente mercato di sbocco per i competitor internazionali, che detengono le materie prime critiche e le tecnologie abilitanti della transizione verde: batterie, turbine eoliche, pannelli fotovoltaici, inverter e veicoli elettrici. E in questo scenario geopolitico-economico, che si configura come un’agguerrita arena competitiva per il predominio industriale sulle catene del valore dell’eco-innovazione, la Cina si è affermata come potenza industriale dominante, in particolare nel settore fotovoltaico e nella produzione di veicoli elettrici. Già nel 2022, la Cina ha installato quasi la metà dei pannelli solari a livello mondiale, diventando il primo produttore sia di componenti Clean-tech che di energia solare, con circa il 40% della capacità globale; i veicoli elettrici prodotti nella Repubblica Popolare Cinese hanno rappresentato circa il 53% della produzione globale totale.
Esiste quindi in Europa un rischio concreto di assistere a un ampio processo di sostituzione ecologica, e quindi ad un generale indebolimento della sfera economica e sociale di interi territori, al declino di importanti catene del valore industriale e alla perdita di posti di lavoro. Una paradossale conseguenza insostenibile, causata proprio da un’azione squilibrata delle politiche per la sostenibilità.
Fin troppo spesso, le politiche promosse nell’ambito del Green Deal europeo hanno mostrato un’impostazione iper-ambientalista, insostenibile tanto per le imprese quanto per i territori, e dunque non allineata con la dottrina fondativa dello sviluppo sostenibile. Si considerino, ad esempio, le conseguenze della legge europea sui veicoli elettrici — che prevede, a partire dal 2035, l’immissione sul mercato dei soli veicoli a zero emissioni di CO₂ — in termini di impatti dirompenti sui settori automobilistici europei, sull’occupazione e sulle prospettive di sviluppo di intere regioni: una scelta eccessivamente sbilanciata sulle preoccupazioni ambientali che, in nome della lotta al cambiamento climatico, rischia di diventare economicamente e socialmente insostenibile. Sembra dunque evidente il rischio di sostituire semplicemente la dipendenza dai combustibili fossili — e dai Paesi che ne detengono le risorse — con una nuova dipendenza dalle tecnologie e dalle materie prime necessarie ai sistemi clean-tech, spesso monopolizzate da un numero ristretto di attori globali.
I rischi evidenti di una transizione ecologica eccessivamente sbilanciata verso gli obiettivi ambientali evidenziano l’urgente necessità di ricalibrarne la direzione. Non si tratta di negare la transizione ecologica ma di orientare le modalità operative nel solco della originaria dottrina dello sviluppo sostenibile, e quindi di procedere con un approccio pragmatico alla transizione ecologica, lungo un percorso che tuteli il patrimonio culturale e industriale a livello locale, un approccio che attribuisca pari importanza alle dimensioni economiche, sociali e ambientali, e che miri a valorizzare la posizione competitiva degli ambiti locali all’interno dell’agenda della sostenibilità.
L’Approccio Italiano al Green Deal e alla Reindustrializzazione
Da qualche tempo, e finalmente, si vedono in Europa alcuni importanti segnali istituzionali di risveglio dal sogno verde del primo Green Deal: si leggono nel rapporto “Il futuro della competitività europea” di Mario Draghi, pubblicato il 9 settembre 2024, e nella comunicazione della Commissione Europea sul “Clean Industrial Deal” del febbraio 2025. Un cambiamento evidente soprattutto nel Consiglio Europeo, grazie alla spinta del nostro e di altri governi, con segnali incoraggianti di una maggiore attenzione alla competitività delle imprese e dei territori europei. Nonostante la posizione ultra ambientalista di alcuni partiti politici e di alcuni paesi nord-europei, sembra ormai, almeno logicamente, acclarato che la questione ambientale è oggi legata alla questione del potere industriale globale, e che è in atto una competizione economica globale per assicurarsi la leadership nella transizione ecologica, che si traduce in una lotta per il controllo delle posizioni strategiche in ogni fonte energetica e lungo intere catene di produzione.
Sembra dunque chiaro che la giusta lotta al cambiamento climatico non può che essere fortemente sostenuta da un’altrettanto giusta lotta contro la deindustrializzazione europea.
E i segnali di questo nuovo corso, si leggono anche nei risultati del recente Consiglio europeo del 5 novembre, in vista della prossima Cop 30, e nella chiara posizione del governo italiano, espressa da Giorgia Meloni: «Il nuovo obiettivo intermedio al 2040 dovrà essere accompagnato da chiare e definite “condizioni abilitanti”, ovvero strumenti che consentano di raggiungere gli obiettivi senza compromettere irrimediabilmente l’economia europea, a vantaggio, peraltro, di un numero sempre più alto di concorrenti strategici a livello globale, che fanno salti di gioia di fronte alle follie verdi che ci siamo autoimposti e che vogliamo continuare ad autoimporci».
Nell’accordo sulla revisione della legge europea sul clima, pur confermando la riduzione del 90% come obiettivo intermedio per il 2040 proposta dalla Commissione, gli Stati membri hanno introdotto, grazie alla ferma posizione del governo italiano, maggiori margini di flessibilità per tenere conto delle diverse condizioni economiche e ambientali nazionali. Per raggiungere l’accordo, è stato previsto che una quota del taglio delle emissioni possa essere raggiunta attraverso progetti in paesi terzi. La proposta della Commissione prevedeva che la quota fosse del 3%, i ministri, venendo incontro alla richiesta dell’Italia, hanno aumentato la percentuale al 5%. I ministri dell’Ambiente Ue hanno inoltre deciso di rinviare di un anno, dal 2027 al 2028, l’estensione del mercato del carbonio al trasporto su strada e al riscaldamento degli edifici. L’Italia vede riconosciute diverse sue richieste, compresa l’apertura sui biocarburanti nel quadro della discussione, prevista per dicembre, in merito alla decarbonizzazione dei trasporti. L’utilizzo di questi combustibili – di origine organica ma comunque responsabili di emissioni serra – è da tempo una pressante richiesta italiana. Lo scopo è quello di proporre un’alternativa al divieto Ue di produzione di motore endotermico al partire dal 2035, che Roma (e non solo) vorrebbe scongiurare.
La flessibilità raggiunta nel Consiglio Europeo è in linea con la politica climatica italiana, che, pur condividendo gli obiettivi climatici a lungo termine dell’Unione Europea, ha sviluppato una posizione basata su un approccio pragmatico e condizionato all’applicazione del principio della neutralità tecnologica – per una legislazione che non imponga una singola tecnologia (es. solo elettrico per l’auto), ma permetta l’uso di diverse soluzioni (come i biocarburanti e l’idrogeno) per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni – lasciando spazio all’innovazione e alle specificità industriali – e all’attenzione prioritaria alla sostenibilità economica delle imprese e dei territori. Una linea politica volta a perseguire la transizione ecologica, con tempi realistici, senza incorrere in una “deindustrializzazione” del tessuto produttivo nazionale ed europeo, e che, parallelamente alla lotta alle emissioni climalteranti, miri a rafforzare le catene di approvvigionamento industriali nazionali ed europee, riducendo la vulnerabilità energetica e industriale, e quindi la dipendenza da Paesi terzi per le materie prime critiche e le componenti clean-tech.
Il nuovo corso europeo del Clean Industrial Deal
L’Unione Europea si trova dunque a un bivio strategico. Negli ultimi trentacinque anni, l’Ue ha ridotto le sue emissioni di circa il trentasette per cento seguendo la strada per centrare l’obiettivo del -55 per cento entro il 2030. Per raggiungere la completa neutralità carbonica al 2050, e il target intermedio del 90% nel 2040, senza sprofondare nel vuoto industriale, è però fondamentale una trasformazione radicale del tessuto industriale del continente, stretto dall’attuale predominio delle catene del valore delle clean-tech cinesi e americane.
Il Clean Industrial Deal (la comunicazione pubblicata dalla Commissione europea come il 26 febbraio 2025) emerge come la risposta pragmatica a questa esigenza, un’iniziativa che mira a tradurre gli obiettivi ambientali in una strategia di crescita economica sostenibile e resiliente.
La genesi del Clean Deal è duplice: da un lato continuare a sostenere le misure per combattere l’urgenza climatica; dall’altro, combattere la crescente pressione competitiva esercitata da potenze globali che adottano politiche industriali aggressive.
In questo contesto, il Clean Industrial Deal non è solo una politica climatica, ma un pilastro fondamentale della sovranità economica europea.
La strategia del Clean Industrial Deal si fonda su diversi assi di intervento, supportati da specifiche proposte legislative. Il Net-Zero Industry Act per sostenere la produzione interna di tecnologie pulite (pannelli solari, turbine eoliche, batterie, elettrolizzatori, ecc.), con l’obiettivo indicativo di produrre in Europa almeno il 40% del fabbisogno annuale di queste tecnologie entro il 2030, semplificando le procedure di autorizzazione e identificando i progetti strategici. Il Critical Raw Materials Act (CRMA)che mira a diversificare le fonti di approvvigionamento delle materie prime critiche (litio, cobalto, terre rare, a rafforzare la capacità di lavorazione e riciclo interna all’UE, riducendo la vulnerabilità strategica da fornitori esterni. La Riforma del Mercato Elettrico, per garantire energia pulita a prezzi accessibili, promuovere l’elettrificazione e l’integrazione delle energie rinnovabili, parallelamente alla promozione dell’efficienza energetica e dell’economia circolare.
Il Clean Industrial Deal ha sostanzialmente modificato i principi del Green Deal, rimettendo la salvaguardia del patrimonio industriale europeo al centro del dibattito, e rappresenta un’iniziativa audace e necessaria per l’Europa, nella ricerca dell’equilibrio tra industria e clima. È un tentativo calibrato di orchestrare la transizione ecologica salvaguardando la base industriale del continente, e ricercando l’autonomia strategica e la sicurezza economica. Sebbene le sfide siano notevoli – in particolare in termini di finanziamenti, semplificazione normativa e concorrenza globale – il nuovo Deal europeo offre una chiara traiettoria per un futuro industriale sostenibile e strategicamente autonomo. Il successo dipenderà dalla volontà politica degli Stati membri di agire con coesione e rapidità, trasformando le riflessioni in azioni concrete ed efficaci. Il successo della strategia dipenderà non solo dalla capacità dell’UE di attrarre investimenti e semplificare la burocrazia, ma anche dalla sua abilità nel gestire la dimensione sociale della transizione, garantendo programmi di formazione efficaci e misure di accompagnamento per i lavoratori colpiti. Solo un approccio integrato e pragmatico potrà garantire che l’Europa mantenga la sua leadership industriale nell’era del clean-tech, delle energie rinnovabili e della mobilità a zero emissioni.
Nonostante si dibatta ancora molto sul Green Deal del 2019, ci sembra di poter affermare che il nuovo corso europeo sia stato rifondato dalla comunicazione del Clean Industrial Deal del febbraio 2025, un nuovo impianto per una transizione ecologica fondata sul principio Conservatore della difesa e del rafforzamento delle radici culturali e industriali locali.
E ci sembra che rispetto a questa importante trasformazione dei principi guida della politica ecologica e industriale europea, il nostro Paese abbia avuto una posizione determinante e potrà continuare a esercitare un ruolo trainante, da protagonista assoluto.