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Da Cicerone ai tweet: l’eloquenza si adatta, ma il gusto per la frase a effetto non muore mai: carrellata nella politica francese

Il libro: Le penne del potere

Da Cicerone ai tweet: l’eloquenza si adatta, ma il gusto per la frase a effetto non muore mai: carrellata nella politica francese

Cultura - di Andrea Verde - 3 Novembre 2025 alle 16:50

Durante la Quinta Repubblica, i discorsi sono diventati parte della storia. Ma qual è lo scopo del discorso politico? Qual è il potere della retorica presidenziale? L’arte di parlare in pubblico si è evoluta negli anni. In Francia, i leader politici hanno sempre cercato di dimostrare di saper scrivere, ma c’è un problema: alcuni non hanno né le parole, né lo stile; i politici della Quinta Repubblica si sono sempre fatti aiutare, nel redigere i discorsi, da scrittori (“penne” nel gergo francese) che guardano spesso alla Rivoluzione francese come modello di riferimento. Le figure di spicco del 1789 avevano imparato la retorica dai gesuiti: Danton, Robespierre, Saint-Just, conoscevano la retorica di Cicerone e sapevano come affascinare il pubblico.

I discorsi dei leader

Il discorso appartiene esclusivamente a chi lo pronuncia anche se alcuni politici scoprono il testo proprio pochi minuti prima di parlare, o hanno firmato libri che non si sono nemmeno presi la briga di leggere. La voce di un leader, la mano di un altro? Resta il fatto che gli scrittori dei discorsi, tra i consiglieri del principe, sono coloro che intervengono nei momenti più cruciali: quando è il momento di parlare. Sono anche coloro che, mettendo per iscritto i pensieri di una figura politica, orchestrano e danno coerenza ad un quadro ideologico o alla narrazione del mandato presidenziale. Michael Moreau nel libro “Les plumes du pouvoir” (le penne del potere), edito da Plon, racconta la loro storia e le loro gesta. E, attraverso questa lente, rivisita i meccanismi interni della Quinta Repubblica.

“Un discorso è sia un’evocazione della storia che una proposta per il futuro, ma oggi un tweet ha più impatto di un discorso”, osserva François Hollande: “Donald Trump lo aveva capito. Barack Obama ha fatto discorsi molto belli, ma non ricordiamo le parole di Obama come ricordiamo i tweet di Trump.” La retorica deve adattarsi. “Un discorso colto e lirico è sempre necessario, ma a un certo punto serve una frase memorabile”, aggiunge l’ex presidente. “Quale sarà il posto dell’eloquenza nel mondo dell’intelligenza artificiale?”, gli fece eco Robert Badinter. L’innegabile declino dell’eloquenza riempiva di malinconia il leggendario abolizionista della pena di morte. “Tutti si sono ormai adattati ad un tono intimo, quello della televisione, piuttosto che ai voli lirici di una tribuna parlamentare”, aggiunge l’ex Primo Ministro Alain Juppé. “Ci vuole tempo per commuovere le persone e bisogna avere il tempo di scaldare i cuori”, sosteneva il compianto Robert Badinter.

Emozione e qualità letteraria

Il discorso rimane molto importante se riesce a suscitare forti emozioni, e quelli che vengono ricordati in Francia hanno una grande qualità letteraria. Il discorso vecchio stile di Chirac nel febbraio 1995 è ciò che gli ha permesso di risalire nei sondaggi. Allo stesso modo, il discorso di Sarkozy alla Porte de Versailles nel 2007, costellato di riferimenti letterari e storici, e il discorso di Hollande a Le Bourget nel 2012, lanciarono le loro campagne elettorali! In definitiva, ogni epoca ha le sue sfide ma la regola senza tempo di Cicerone – “Piacere, emozionare, convincere” – è sempre di grande attualità e contribuisce a stabilire la legittimità di un leader.

I presidenti devono pronunciare parole che rasserenino ma che al tempo stesso parlino chiaro e definiscano una prospettiva di lungo periodo. Alcuni discorsi sono diventati momenti storici. Le parole permeano epoche, segnano svolte politiche, servono a conquiste di potere, fomentano grandi conflitti umani o ideologici e consentono momenti di commemorazione, memoriali o omaggi. “I discorsi sono il momento in cui tutto è in gioco, in cui il Presidente prende un impegno solenne con la Nazione” afferma Henri Guaino, fedele “penna” di Nicolas Sarkozy all’Eliseo.
Il discorso diventa uno strumento di potere e la politica diventa reale solo quando viene pronunciata. “I discorsi sono la messa dei politici”, afferma Emmanuelle Mignon, ex capo dello staff di Nicolas Sarkozy all’Eliseo.

Il generale De Gaulle citava Giovenale

Il generale de Gaulle amava citare una frase di Giovenale “la retorica porta al Consolato”. La scrittura è il momento in cui le decisioni politiche e strategiche possono essere formalizzate, dando potenzialmente luogo a negoziati più o meno tesi ai massimi livelli dello Stato. I politici e le loro “penne” hanno formato coppie celebri: François Mitterrand ed Erik Orsenna, Jacques Chirac e Christine Albanel, Philippe Séguin e Nicolas Baverez, Nicolas Sarkozy e Henri Guaino, François Fillon e Igor Mitrofanoff, o ancora Emmanuel Macron e Sylvain Fort. Tutti ricordano il discorso di de Gaulle di Phnom Penh del 1° settembre 1966, nello Stadio Olimpico della capitale cambogiana, davanti ad una folla di oltre 100.000 persone. Il discorso fece del Generale de Gaulle uno degli eroi del Terzo Mondo. “Bisogna permettere alle persone di determinare il proprio destino”, dichiarò.

Ma all’inizio della presidenza di de Gaulle, l’Algeria era al centro dei suoi discorsi, e anche dei suoi interventi televisivi. Durante la guerra, dal 1958 al 1962, il generale si rivolse al popolo francese, in televisione, trentuno volte. Il più importante di questi fu quello del 16 settembre 1959, in cui proclamò il diritto degli algerini all’autodeterminazione. Un mistero avvolge Pompidou: fu lui il primo ghostwriter del dopoguerra? La leggenda dice che sia stato assunto come “penna” del Generale de Gaulle. “Trovatemi un laureato dell’École Normale Supérieure che sappia scrivere!”

I grandi discorsi dei presidenti francesi

La storia, da parte sua, ricorderà i grandi discorsi internazionali di François Mitterrand, le cui ripercussioni si sono fatte sentire in tutto il mondo, così come le parole memorabili e rivoluzionarie di Jacques Chirac pronunciate al Velodromo d’Inverno nel luglio 1995. Il coinvolgimento dei presidenti nella stesura dei loro discorsi varia. “Jacques Chirac non li ha mai scritti lui stesso”, afferma Christine Albanel, contrariamente a Mitterand. Il primo discorso presidenziale di Mitterand, il discorso inaugurale del 21 maggio 1981, fu affidato allo scrittore rivoluzionario Régis Debray, ex compagno di Che Guevara ed ex prigioniero dell’esercito boliviano. “Io ho redatto la bozza centrale e Mitterrand l’ha rivista con Bérégovoy”, racconta Debray.
Debray, nominato consigliere speciale per le relazioni internazionali, è noto soprattutto, all’inizio della presidenza di Mitterrand, per il cosiddetto discorso di Cancún, pronunciato in realtà a Città del Messico, davanti al Monumento alla Rivoluzione, il 20 ottobre 1981.

“Ai figli della Rivoluzione messicana, porto il saluto fraterno dei figli della Rivoluzione francese!”, esordì François Mitterrand, con grande clamore e sotto un sole cocente. Régis Debray voleva che questo discorso fosse rivolto a tutta l’America Latina, sebbene gli Stati Uniti, sponsor delle dittature regionali, fossero a poche centinaia di chilometri di distanza. Due giorni dopo, si aprì nella località turistica di Cancún, alla presenza di Ronald Reagan, l’importante conferenza Nord-Sud per cercare di liberare l’America Latina dal suo debito.

François Mitterrand affrontò il tema delle libertà, e il suo discorso ebbe una grande risonanza internazionale. “Saluto gli umiliati, gli emigranti, gli esuli nella loro terra. Saluto coloro che sono imbavagliati, perseguitati e torturati, che vogliono vivere e vivere liberi”. Qualche anno prima, nel marzo del 1964, anche il generale de Gaulle aveva sfidato l’egemonia americana a Città del Messico lanciando il suo famoso “marchemos la mano en la mano” (“marciamo mano nella mano”), in un discorso in spagnolo dal balcone del Palazzo Nazionale. “Il discorso che trovo più bello di Mitterrand, e a cui faccio spesso riferimento, è quello che tenne al Parlamento europeo nel 1995”, dichiarò François Hollande. Metteva in guardia contro la rinascita del nazionalismo.

Il 17 gennaio 1995, pochi mesi prima di lasciare l’Eliseo, il Capo dello Stato parlò a Strasburgo. In quella grande sala senz’anima, il Presidente, molto provato per la malattia, pronunciò un discorso molto lungo, prolisso, molto tecnico e mortalmente noioso. Il Presidente insistette per parlare in piedi. Erano tutti ansiosi che finisse. Concludendo il suo discorso, François Mitterrand posò i fogli sul leggio. La sala applaudì educatamente, ma lui rimase in piedi e improvvisò: “E concluderò con qualche parola più personale…”. I parlamentari alzarono lo sguardo. “È successo che i capricci della vita mi abbiano portato a nascere durante la Prima Guerra Mondiale e a combattere nella Seconda. Ho quindi vissuto la mia infanzia nell’atmosfera di famiglie dilaniate, in lutto per i morti, che covavano risentimento, e talvolta odio, contro il nemico di ieri. Il nemico tradizionale!”.

L’emozione riempì un Parlamento “stordito” al pensiero delle loro tragedie personali. La conclusione del discorso sarebbe diventata famosa: “Dobbiamo imparare dalla nostra storia. Perché, se non superiamo odi e rancori, dobbiamo sapere che una regola prevarrà, signore e signori: il nazionalismo è la guerra!”. Queste osservazioni sono state ispirate dallo scrittore pacifista e premio Nobel per la letteratura, Romain Rolland. I parlamentari tributarono a François Mitterrand un’ovazione.
I discorsi di Chirac furono scritti da Christine Albanel come il famoso discorso del Velodromo d’inverno, che riconobbe la responsabilità dello Stato francese, e perfino della “Francia”, nella retata di 13.152 ebrei nel luglio 1942.

Il 16 luglio 1995, Chirac disse che: “Riconoscere gli errori del passato, non nascondere nulla delle ore buie della nostra storia, significa difendere un’idea di umanità, della sua libertà e della sua dignità. Queste ore buie macchiano per sempre la nostra storia e sono un affronto al nostro passato e alle nostre tradizioni”. E poi, all’improvviso, questa ammissione presidenziale: “Sì, la follia criminale dell’occupante è stata aiutata dai francesi, dallo Stato francese”. Fu soprattutto un’altra frase a rendere celebre il discorso e ad alimentare le polemiche: “La Francia, terra dei Lumi e dei diritti umani, terra di accoglienza e asilo, la Francia, quel giorno, ha commesso l’irreparabile. Infrangendo la sua parola, ha consegnato suoi cittadini ai loro carnefici”.

Ma i baroni del gollismo e membri dell’Assemblea Nazionale, Philippe Séguin, e l’ex Primo Ministro Pierre Messmer espressero la loro indignazione. Il discorso di Chirac lasciò perplessi sia i mitterandiani, sia i gollisti. “C’è confusione nel discorso”, scrisse l’ex Guardasigilli di Mitterand, Robert Badinter. “Il Presidente della Repubblica francese, soprattutto un gollista, non può dire che Vichy fosse la Francia. Perché, se la Francia fosse stata a Vichy, de Gaulle e la Francia Libera non sarebbero più legittimi”. Un’affermazione “discutibile” in un “discorso altrimenti eccellente”, aggiunse Hubert Védrine, altro stretto collaboratore di François Mitterrand. “L’eterno dilemma… Vichy fu il risultato di un collasso militare, di una capitolazione e di un putsch, o la continuazione della Terza Repubblica?”

L’ex resistente, avvocato e premio Nobel per la pace René Cassin aveva teorizzato all’epoca che Vichy fosse, a suo avviso, “un regime di fatto” ma non di diritto. Il generale de Gaulle aveva sostenuto un ideale di riconciliazione e che Vichy non avesse nulla a che fare con la Francia. Invece Chirac, contraddicendo de Gaulle, inserì Vichy in un continuum.
“I francesi non furono responsabili, ma la Francia sì!” insistette Serge Klarsfeld, membro di spicco della comunità ebraica francese. “Il Capo dello Stato era il francese più glorioso dell’epoca, il Maresciallo di Francia Philippe Pétain, l’eroe di Verdun nella Prima guerra mondiale. Il Primo Ministro, Pierre Laval, aveva ricoperto questo incarico più volte durante la Terza Repubblica. E il suo vice, l’Ammiraglio Darlan, era un Ammiraglio di Francia. Non si può immaginare nessuno più rappresentativo della Francia di queste tre figure!”

Quando François Mitterrand morì, la mattina dell’8 gennaio 1996, Jacques Chirac si recò immediatamente a rendergli omaggio nell’appartamento di Avenue Frédéric-Le-Play che lo Stato aveva messo a disposizione dell’ex presidente. Il Capo dello Stato convocò la sua cerchia ristretta: il Segretario Generale Dominique de Villepin, il Capo di Gabinetto Bertrand Landrieu, il consigliere Maurice Ulrich e anche la speechwriter Christine Albanel. Confermò che avrebbe parlato in televisione quella sera e diede l’ordine: “Voglio un discorso in stile sovietico!”
I collaboratori si scambiarono un’occhiata. Per Jacques Chirac, esprimere la minima riserva su un presidente il cui corpo si era appena raffreddato era fuori questione.

Il tempo era essenziale. Christine Albanel non scrisse il discorso a mano, come era sua abitudine a quei tempi, quando i consiglieri potevano ancora ignorare i computer. Lo dettò direttamente alla sua segretaria, Michèle Fayt. “Miei cari concittadini, il Presidente François Mitterrand è morto stamattina. François Mitterrand fu, prima di tutto, profondamente rispettoso dell’individuo ed è per questo che decise di abolire la pena di morte” dichiarò il suo successore. Quando il discorso fu trasmesso, Jack Lang fece fatica a trattenere le lacrime. “Chirac ha parlato meglio di chiunque altro, compresi noi socialisti”.

Nicolas Sarkozy creò una rottura con il passato. Non solo aumentò il numero dei suoi discorsi su temi solitamente trattati dai ministri, ma per ognuno di essi pretendeva, dal suo staff, un annuncio con un notevole potenziale mediatico. Un uomo vulcanico fu al centro della retorica di Sarkozy durante i suoi cinque anni all’Eliseo: il fedele Henri Guaino, che era solito sedere in prima fila ai comizi di Sarkozy. Guaino, il consigliere speciale, aveva una visione politica di ispirazione gollista e cercava di influenzare regolarmente le dichiarazioni del presidente, il che gli procurò detrattori all’interno dell’Eliseo. La guerra di personalità diventò una battaglia di idee.

Guaino aveva idee molto specifiche, lui, l’ex collaboratore di Philippe Séguin e Charles Pasqua. Gli attacchi di collera erano una costante di Henri Guaino. La “penna” di Sarkozy, che passava le notti a scrivere, non sopportava l’idea che altri consiglieri potessero correggere il suo lavoro, che, per questa ragione, consegnava sempre all’ultimo momento. Uno dei discorsi presidenziali, scritto da Guaino, di cui Nicolas Sarkozy va più fiero è senza dubbio quello pronunciato a Tolone il 25 settembre 2008, contro la crisi finanziaria.
“L’idea che i mercati abbiano sempre ragione é un’idea folle!” dichiarò il Capo dello Stato quel giorno. Dieci giorni prima, Lehman Brothers, un gigante della finanza globale, aveva dichiarato bancarotta, gettando i mercati azionari e l’economia mondiale nel panico. Si trattava del più grande fallimento nella storia americana. Henri Guaino colse l’occasione per scrivere un importante discorso in difesa dell’etica contro le speculazioni finanziarie.

“Lo dico ai francesi preoccupati per i loro risparmi […]. Non accetterò che un singolo risparmiatore perda un solo euro perché un istituto finanziario si dimostra incapace di far fronte ai propri obblighi. […] È un impegno solenne che prendo stasera: qualunque cosa accada, lo Stato garantirà la sicurezza e la continuità del sistema bancario e finanziario francese». Per fare colpo sul grande pubblico, Guaino scrisse altre frasi ad effetto con una buona dose di drammaticità. Mise in discussione la moralità dei dirigenti d’azienda e le stock option. “Non esito a dire che le modalità di remunerazione di dirigenti e operatori devono essere regolamentate. Ci sono stati troppi abusi, troppi scandali!”. Henri Guaino rimase all’Eliseo per tutto il mandato quinquennale.
I nomi di altre figure politiche rimangono indissolubilmente legati a un discorso. Il 14 febbraio 2003, a Dominique de Villepin bastò un quarto d’ora per lasciare un segno indelebile. Davanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il Ministro degli Esteri francese disse no alla guerra in Iraq, condotta dagli americani.
Una frase del suo discorso sarebbe diventata celebre. “Ed è un vecchio Paese, la Francia, di un vecchio continente come il mio, l’Europa, che vi dice questo oggi, un Paese che ha conosciuto guerre, occupazioni, barbarie oggi vi mette in guardia.”

Tra i grandi oratori della République, Robert Badinter fu il padre dell’abolizione della pena di morte in Francia e autore di un monumentale discorso pronunciato il 17 settembre 1981 all’Assemblea Nazionale: “Domani, grazie a voi, la giustizia francese non sarà più una giustizia che uccide”. Domani, grazie a voi, non ci saranno più, per nostra comune vergogna, esecuzioni furtive all’alba, sotto il baldacchino nero, nelle prigioni francesi. Domani, le pagine insanguinate della nostra giustizia saranno archiviate per sempre”. Tre mesi dopo, il 20 dicembre 1981, Robert Badinter pronunciò l’altro importante discorso parlamentare della sua carriera: quello in cui sosteneva la depenalizzazione dell’omosessualità, sulla base di un disegno di legge proposto dai deputati Raymond Forni e Gisèle Halimi, che sarebbe stato approvato l’estate successiva. “La repressione giudiziaria dell’omosessualità tra adulti consenzienti è un oltraggio!”, disse Badinter. Le sfide saranno diverse nei prossimi anni, i social giocheranno un ruolo sempre più importante, ma la retorica avrà sempre un suo spazio conclude Moreau.

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di Andrea Verde - 3 Novembre 2025