La missione
Appesi al “filo forte” della speranza. Così Israele ricostruisce la propria sicurezza
L’ultimo giorno della missione in Israele è stato emotivamente molto complicato e quando sono riuscita con difficoltà a comunicare, una persona che stimo molto mi ha detto una cosa importante: «Fai arrivare i nostri occhi dove altrimenti non potrebbero». E’ un atto di responsabilità, come mi ha detto, ma anche un privilegio.
E quel giorno i miei occhi hanno iniziato a guardare il mondo dall’alto, sorvolando la Terra Santa e guardando i confini con la West Bank: in una striscia di terra lunga poche decine di chilometri, un muro separa Israele dalla Cisgiordania. Un pezzo di terra talmente piccolo che è impossibile credere sia oggetto di tante diatribe, conflitti, divisioni. Ma da Tel Aviv ad arrivare ai confini nord è un attimo e lo sguardo su quel muro è durato solo lo spazio di questa considerazione. Poi si è volato sul lago di Tiberiade, così esteso che sembra un mare e la domanda che è sgorgata prepotente è come sia possibile che la terra che ha visto predicare la pace di Cristo possa essere così funestata dalla guerra. Sorvolando Israele, in ogni agglomerato urbano si vedono stagliarsi al cielo minareti di moschee, perfettamente incastonati nella realtà urbana di città in cui ebrei, musulmani e cristiani convivono da sempre, decenni per la geopolitica moderna, centinaia di anni per la storia.
Siamo atterrati a Kiryat Shmona, per poi dirigerci verso Metulla, ai confini con il Libano, a ridosso dell’area in cui è presente in contingente Unifil. Qui Avraham Levine, esperto di sicurezza, un uomo di mezza età, con lo sguardo vivo e l’intercalare intelligente di chi ne ha vissute molte, ci ha spiegato quanto il problema israeliano con i proxy sia presente oggi più di ieri, ma che lo si sta affrontando anche alla luce delle evoluzioni degli stati cicorcostanti, in particolare di quanto sta accadendo in Siria. La minaccia di Hezbollah è sempre dietro l’angolo e lì si vive nella sconsolata impressione che il contingente Unifil non riesca ad avere l’adeguato impatto e che il governo libanese non faccia sufficienti sforzi per smorzare la capacità offensiva del gruppo, verosimilmente anche per scongiurare una tensione interna che potrebbe portare ad una guerra civile. Il confine nord di Israele, subito dopo il 7 di ottobre, era un fronte ancora più caldo che Gaza, tuttavia passato in secondo piano per l’opinione pubblica. Anche quando il governo israeliano ha deciso di attaccare l’Iran, per evitare la corsa all’arma nucleare, il tema del confine nord è rimasto sotto traccia. Al momento, tuttavia, i confini nord non riposano tra gli allori, ma la situazione è nettamente migliorata rispetto a due anni fa.
Dopo un lungo briefing con gli occhi rivolti verso il Libano, è stato il momento di ripartire a ritroso e dirigerci verso il Sud.
Abbiamo sorvolato l’interno e poi la costa, arrivando fino ad Ashkelon per poi rientrare verso l’entroterra. Questo sorvolo, dai confini nord a sud, dura un’ora di elicottero, per dare la percezione delle dimensioni estremamente esigue dell’area. Atterriamo nei pressi della zona in cui la notte tra il 6 ed il 7 ottobre 2023 si stava celebrando il Nova Festival. Ci siamo spostati dunque verso il sito, oggi divenuto un sacrario quasi improvvisato, senza alcuna installazione permanente, ma fatto di centinaia di cartelli con le foto delle vittime ed a terra, dei fiori posticci belli come fossero veri, infissi a terra come a rammentare che il sangue versato da vittime innocenti è pronto a far germogliare nuovi fiori. Lì abbiamo incontrato Remo Salman Al Ozayel, poliziotto che per caso era di turno quella maledetta mattina. Di origini beduine e svizzere, musulmano, orgogliosamente inquadrato nella polizia di Stato israeliana, quel giorno ha salvato molte vite, perchè sentiva che era la sua missione. Eppure non si sente un eroe ed i suoi occhi si commuovono quando deve raccontare dei suoi colleghi che non ci sono più e dei ragazzi, alcuni giovanissimi, che non è riuscito a trarre in salvo. Si commuove e dice: ho fatto del mio meglio. Ebbene, il “suo meglio” è durato 15 ore di terrore in uno scenario di guerra, in 15 ore ha fatto quello che la maggior parte di noi non farà mai in tutta la propria vita.
Poi è stata la volta del kibbutz Be’eri, il più grande di Israele, uno dei primi ad essere Stato attaccato e che ha subito un assedio durato tre giorni. Tre giorni di orrore, morte sofferenza. Noi quell’orrore lo abbiamo rivissuto negli scheletri delle case date alle fiamme, devastate dai proiettili, saccheggiate dalla furia omicida dei terroristi di Hamas. Qui tutto è un pugno nello stomaco e Yarden Tzemach, un quarantenne israeliano che era addetto alla sicurezza del kibbutz, è costretto a metterci dinanzi a quegli orrori: donne, uomini, bambini e anziani uccisi, fucilati, torturati e rapiti selvaggiamente, in un turbine di violenza che pareva non avere fine. Ma il suo obiettivo è la speranza di far rifiorire quei luoghi e forse fra un anno poteranno tornare ad essere abitati.
Be’eri è a meno di quattro chilometri dalla striscia di Gaza e verso le 16,30, abbiamo iniziato a sentire dei boati, che in un primo momento abbiamo attribuito ad ordigni inesplosi fatti brillare. Invece no, le agenzie di stampa che iniziavano ad uscire ci hanno confermato che era un nuovo bombardamento. Hamas avrebbe riconsegnato tredici corpi che in realtà non sarebbero appartenuti agli ostaggi e questo avrebbe scatenato la reazione israeliana. Occorrerà vedere come evolve la situazione, tuttavia questa tregua è appesa ad un filo. La speranza è che il filo sia di seta: sottile, ma forte, delicato, ma prezioso. Lo stesso filo di cui sembravano tessute le parole di tutti coloro che abbiamo incontrato in questa missione: israeliani, palestinesi, ebrei, musumani, soldati, politici, professionisti, che ci hanno fatto comprendere che c’è molto da lavorare per tessere il filo della pace, ma che una possibilità esiste. E noi questa possibilità abbiamo il dovere di raccontarla, è un atto di responsabilità e un privilegio. Non sarò mai abbastanza grata all’American Jewish Committee che ci ha dato la possibilità di farlo.