
La sfida del tempo
Quando l’arte congiunge gli “opposti pianeti”: alla Gnamc la raffinata mostra del pittore cinese Liu Youju
Time is out of joint. O cursed spite. That ever I was born set it right (Amleto, atto I, scena 5).
Che il tempo sia scardinato, da… tempo, almeno da quando il “Principe del dubbio” lo ha, contrariamente alle sue abitudini, affermato con assoluta certezza, ne siamo tutti convinti.
E, come lui, ci poniamo continuamente il problema di chi debba o possa “rimetterlo in sesto”.
Per la verità, noi comuni mortali, no, non abbiamo la pretesa di essere i protagonisti di questa inane impresa. Ma vi sono stati, e purtroppo continuano a esserci, parecchi mitomani che la domanda se la sono fatta e se la fanno sul serio. E dal tipo di risposta che hanno dato o daranno, dipende ahimè il destino di tutti gli altri. Ma vi è una terza categoria di persone che, loro malgrado, sono chiamate, destinate anzi, a tentare di “mettere in squadra” il tempo, e con esso il mondo. Sanno bene, ne sono profondamente consapevoli, e da qui il perenne tormento che accompagna il loro agire, di non poterci mai riuscire, ma sanno anche che non possono fare altrimenti: gli artisti.
La sfida degli artisti: “mettere in quadra il tempo”
Quale che sia il loro campo di azione, quale la materia, corporea – colore, pietra, creta, bronzo – o incorporea – suono, scrittura – sono tutti condannati, come tanti cloni di Sisifo, all’immensa, inutile, fatica di spingere su per un’erta salita, un masso che, giunti al culmine, rotolerà inevitabilmente giù.
Ma senza quel continuo, assurdo, ma indispensabile, sacrificio, il tempo, il mondo, la vita cioè, non avrebbero veramente alcun senso. In un mio racconto – mi scuso per la citazione personale – un’ascoltatrice chiede a un compositore a cosa serva la musica di Mozart e la risposta è perentoria: “a nulla, signora, assolutamente a nulla, come le farfalle”. Ecco, è questa la condizione esistenziale dell’artista, creare farfalle, vale a dire qualcosa che lontanamente possa somigliare alle, inimitabili e irriproducibili, farfalle.
A Roma la raffinata mostra del pittore cinese Liu Youju
Queste riflessioni mi sono state suggerite dalla visita a una raffinata mostra, quella del pittore cinese, Liu Youju alla Galleria nazionale di arte moderna e contemporanea di Roma, intitolata “Bounded and Unbounded”. Anzi, più precisamente dalle parole con cui uno dei presentatori della stessa, Marco Nocca, professore all’Accademia di Belle Arti di Roma, conclude il suo contributo al raffinato catalogo: “Dialogos , per i Greci ‘conversazione’, ‘scambio di parole’ tra due o più persone (tra due o più civiltà). I soli strumenti capaci, attraverso l’arte visiva e la parola, di far tacere le armi, il cui sinistro rimbombo non si quieta, allo scadere del primo quarto di secolo, in questo nuovo millennio in cui avevamo tanto sperato”. Non ha dubbi, Nocca, quando sostiene che le arti siano strumenti “capaci di far tacere le armi”. Eppure un esperto come lui, storico dell’Arte antica, dovrebbe ben sapere che ciò non è mai accaduto. Mai, in tutta la storia dell’Umanità, una storia che non è altro che un’infinita sequela di assassinii, stragi, stermini, genocidi, compiuti a volte in difesa di… “nobili principi” e molto spesso sotto la protezione (?!) del dio di turno (di parte). Mai, dico mai, l’Arte è servita a far tacere le armi.
Mettere ordine nel caos, non far tacere le armi
Troppo scontata e abusata la sottolineatura che i criminali nazisti erano spesso dei cultori della musica e mentre progettavano camere a gas, suonavano il loro amato Chopin. O ascoltavano Wagner.
E allora? Dovremmo per questo smettere di creare opere d’arte e di volerne fruire? No, di certo. Anche perché non sapremmo farne a meno. L’uomo ha bisogno dell’arte. Come del cibo o dell’acqua. È il suo costante tentativo, destinato perennemente al fallimento, di dare una forma diversa al mondo, di mettere ordine nel caos. In questo il suo gesto ha qualcosa di divino. Ed è soltanto nella dimensione che egli stesso si costruisce, che può sopravvivere.
Ed ecco allora che opere così festose, che sembrano nascere magicamente sulla carta (la raffinata “carta di riso”, quasi una connotazione “strutturale” dell’arte cinese), ma che sono frutto invece di un lavorio di ricerca, di progressivo perfezionamento, di questo settantenne nato a Guangdong, fondatore – come riporta la puntuale scheda biografica del catalogo – della “pittura illusionista”, sono testimonianze felici di questo tentativo. Non di mettere ordine nel disordine, ma di dare un senso, valido per noi, a quel disordine. Testimonianze che vengono da un’altra civiltà, lontanissima da noi, eppure prossima, al cui millenario fascino non riusciamo a sottrarci. Dall’epoca dei viaggi del gesuita Matteo Ricci e di Marco Polo, il nostro rapporto, nostro in particolare, di noi italiani, con la cultura cinese, è strettissimo. Ed è paradossale come, mentre a livello per così dire planetario, la Superpotenza Cina è considerata lontana ed enigmatica, e anche temuta per la sua enorme capacità produttiva e per le (presunte) mire espansionistiche, a un livello invece meno “cosmico”, la “cultura” cinese, nei suoi vari aspetti, fa parte ormai della nostra quotidianità. Le nostre città sono affollate di cinesi, operosi quanto instancabili e “invisibili”, i negozi sono pieni delle loro merci, nelle case, negli uffici, e ora anche nelle nostre strade, i marchi cinesi dominano la scena.
Dopo la rassegna sul futurismo la cultura cinese alla Gnamc
Ed è benemerita l’iniziativa della GnamC, sotto la brillante guida della nuova Direttrice, Renata Cristina Mazzantini, alla quale va riconosciuto il merito di aver dato nuovo slancio alla prestigiosa istituzione, a partire dalla formidabile mostra sul Futurismo curata da Gabriele Simongini. Iniziativa che ha un ulteriore merito, quello di aver coinvolto alcune prestigiose Accademie dell’Arte, che così vengono inserite in un circuito che può valorizzare il lavoro che docenti e studenti (presenti in buon numero alla presentazione) compiono quotidianamente. Marco Nocca ha introdotto un ulteriore argomento, anch’esso controverso, ma in qualche modo “ineluttabile”, quello del rapporto fra Oriente e Occidente. Da ottimista quale evidentemente mostra di essere, ne ha visto il lato positivo e cioè il “mutamento di prospettiva” prodotto dallo sguardo dell’altro, vale a dire di un’altra cultura, di un diverso modo di fare arte, che consente di scoprire aspetti nuovi di un panorama familiare e perciò talvolta non più colto nella sua originalità e ricchezza di sfumature.
Il rapporto fra il divano orientale e quello occidentale
Ma il rapporto fra il “divano” orientale e quello occidentale, per mutuare una famosa definizione di Goethe, è una storia di fallimenti, o per lo meno di risultati non coerenti con gli sforzi fatti. La formazione orchestrale mista di musicisti israeliani e palestinesi, la “West-Eastern Divan Orchestra”, fondata, da Baremboim e Said con lo scopo di favorire il dialogo fra culture diverse, ha avuto vita non facile e, come purtroppo si sta vedendo da due anni a questa parte, con la spaventosa guerra fra Israele e i terroristi di Hamas, quel dialogo si è interrotto nel peggiore dei modi. Ripeto la domanda. È questa una buona ragione per cessare gli sforzi di pacificazione, di integrazione fra popoli, religioni, concezioni della vita diversi? Assolutamente no. Anche perché sarebbe una decisione, qualora la si volesse prendere, destinata a un immediato fallimento.
La pittura illusionista è un elisir di lunga vita
L’uomo non può sopravvivere senza le sue “illusioni”, e la pittura “illusionista” di Liu Youju è un elisir di lunga e gioiosa vita. Anche lui è un cultore del “dialogo”. Cito dall’introduzione della bravissima curatrice, Anna Balzani: “Liu Youju fa appello all’importanza del dialogo intellettuale, culturale e spirituale tra i popoli, al fine di creare una comunità di valori condivisi, scoperta e conoscenza reciproca: ‘nella società odierne la lotta fra valori diversi sta diventando sempre più feroce e, a tratti, paradossale’”. Questa è in sintesi, la “poetica” dell’artista cinese. E lui crede tanto al dialogo fra culture e valori diversi che si butta, in un certo senso, nelle braccia di quella occidentale, assumendo moduli e formule facilmente riconoscibili, dallo “stripping” di Pollock, ai “furori” tardo-espressionistici dei “Cobra”, con l’ovvio riconoscimento del debito contratto nei confronti di Kandisky, ma anche degli espressionisti, dei fauves, etc., insomma di buona parte della pittura moderna.
Il paziente e lungo lavoro dell’artista per raggiungere gli opposti
E lo fa senza alcun timore di apparire un imitatore o un citazionista, con il candore di chi crede intimamente nei valori espressi da quell’arte che in qualche modo rappresenta la “controparte” del suo mondo di valori. L’esposizione illustra chiaramente le intenzioni suggerite dal titolo della stessa, con lavori dai confini “ideologici” circoscritti e altre con finalità in qualche modo trascendenti quei limiti”. Anche se, nel caso di opere d’arte, le intenzioni “programmatiche” dovrebbero essere implicite o espresse dalle stesse opere e mai esplicitate, quadri come The Scenario Of The Third Thinking oppure Three Produced All Things, al di là dei riferimenti, precisati dalla curatrice, al testo fondamentale del taoismo, il Tao The Ching, sono completamente risolti sul piano figurativo. Altre opere, come ad esempio Nostalgia Of Native Land, si pongono, felicemente, su un terreno più strettamente pittorico.
Nel complesso l’ampia rassegna fornisce un’idea abbastanza precisa del lungo e paziente lavoro dell’artista (agli inizi era un calligrafo) per congiungere gli “opposti pianeti” e, anche se gli stessi continueranno a mantenere la distanza che li separa, quel lavoro non è sprecato. Per citare il “suo” Tao, il risultato è nel “viaggio” per raggiungere la meta.