Il post
Natasha Stefanenko rimpiange l’infanzia in Unione sovietica: il post in cirillico galvanizza i comunisti italiani
Natasha Stefanenko, la nota attrice e showgirl di origine russa, scrive un post in cirillico dedicato ai bei tempi andati in Unione sovietica ed è subito nostalgia del comunismo, di Stalin, del muro di Berlino e dell’Urss. Incredibile, ma vero: basta la foto della Stefanenko, da anni sposata a un facoltoso imprenditore italiano, per galvanizzare i nostalgici di “Addavenì Baffone”.
Che cosa ha scritto Natasha Stefanenko nel suo post in cirillico e in italiano? Ha postato la foto del 1979 nel quale era una bambina della gioventù sovietica. Un post nostalgico dei “bei tempi” del comunismo sovietico, omettendo il piccolo particolare della mancanza di libertà.
“Cresciuta dietro il filo spinato in una città fantasma”
«Sono cresciuta a Sverdlovsk-45, vicino a Sverdlovsk negli Urali (oggi Ekaterinburg). La mia – ha raccontato Stefanenko al Quotidiano nazionale – è una città senza nome, non esiste nelle cartine geografiche. La mia famiglia: mio padre Boris, ingegnere nucleare, mia madre Svetlana, insegnante e mia sorella Elena. Ci voleva un pass per entrare e uscire dalla città in cui si lavorava alla costruzione di un arsenale nucleare sovietico». Una città “circondata dalle barriere di filo spinato, i cani lupo ogni 100 metri e gli allarmi pronti a scattare». Insomma, nostalgia di che?
Nonostante questo, il post ha scatenato i nostalgici italiani del comunismo e, udite udite, dei tempi di Stalin. Un’apologia di una delle dittature più sanguinose, che mettono i brividi. E non per il freddo siberiano. Inutile dire che, subito dopo la caduta del Muro di Berlino, Natasha è scappata nella corrotta Europa filo-americana. Chissà come mai…
Il post nostalgico di Natasha Stefanenko
«In questa foto indosso la cravatta rossa da pioniere — un simbolo che, per chi è cresciuto nell’URSS, rappresentava appartenenza, disciplina e ideali collettivi.
Faceva parte della nostra uniforme scolastica, ma anche di un’identità condivisa.
Lo scatto risale ad un’epoca sovietica che oggi sembra lontana, ma che ha formato profondamente il nostro modo di pensare, di vivere, di essere.
Crescevamo in un mondo dove tutto era condiviso: i sogni, le difficoltà, le speranze. Il pioniere non era solo una figura scolastica — era un piccolo ingranaggio di un grande progetto collettivo.
Non avevamo molto, ma non ci sentivamo poveri. I giocattoli erano pochi, ma l’immaginazione era infinita. Le vacanze si passavano nei campi estivi, dove si imparava a vivere insieme.
La libertà era diversa da quella che conosciamo oggi. Non era individuale, ma collettiva. E anche se oggi vediamo i limiti di quel sistema, molti di noi portano ancora nel cuore la forza di quei valori: solidarietà, resilienza, rispetto.
Questo non è solo un ricordo.
È una finestra su un mondo che ha plasmato tante vite. E ogni volta che la guardo, mi ricordo da dove vengo — e capisco un po’ meglio dove sto andando.
P.s. Questo racconto non è una nostalgia politica, ma un ricordo personale. Il passato non si può cambiare, ma si può capire — e da lì, costruire ponti».