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Venezia si blinda corteo pro-Pal

Dalla tragedia alla farsa

Tappeto rosso, ma per l’imbarazzo: i Pro Pal sfilano a Venezia incuranti della magra figura sui boicottaggi

Tamburelli, slogan e contraddizioni: Venice4Palestine si dice pronta a sbarcare al Lido come una compagnia teatrale senza regia né copione

Politica - di Alice Carrazza - 30 Agosto 2025 alle 12:53

Al Lido di Venezia oggi non sbarcano solo cineasti e star internazionali. Sbarcano anche i pro-Pal, armati di tamburelli, coperchi di pentole e parole svuotate della loro pretesa dignità. Sotto la maschera dell’attivismo, si consuma l’ennesima esibizione di un movimento che ha fatto dell’ambiguità una cifra e della confusione il suo unico cemento. Per gli organizzatori il corteo, previsto per le 17 a Santa Maria Elisabetta, sarà il più partecipato degli ultimi decenni. Ciò che è certo è che sarà anche il più delegittimato.

Una parodia in scena al Lido di Venezia

La Mostra del Cinema, vetrina dell’eccellenza artistica, si ritrova suo malgrado trasformata in palcoscenico di una protesta che somiglia ormai a una caricatura. La rete Venice4Palestine – o ciò che ne resta – è ormai vittima del proprio protagonismo. Dopo aver raccolto migliaia di firme con un primo appello generico sulla tragedia di Gaza, i Pro Pal hanno pensato bene di alzare il tiro con la richiesta di censurare artisti israeliani o considerati vicini a Israele, in particolare Gal Gadot e Gerard Butler. Così è cominciata la valanga.

«Mi hanno tirato in mezzo», ha detto Carlo Verdone, che aveva firmato il primo, senza che gli fosse stata fatta alcune menzione del boicottaggio. «Non sono d’accordo nell’escludere gli artisti». Toni Servillo ha seguito la stessa linea: «Non condivido per nulla il boicottaggio». E ancora Laura Morante, che denuncia il rischio di «caccia alle streghe», con tanto di stoccata: «Non so bene quale funzione possa avere».

Paolo Sorrentino, che ha scelto invece di non aderire sin dall’inizio, ha sintetizzato il proprio scetticismo con una battuta al Fatto quotidiano: «Ho imparato negli anni che agli appelli promossi dagli artisti bisogna sempre pensarci due volte prima di firmare».

Le prese di distanza, insomma, piovono. Venice4Palestine, collettivo senza volto né portavoce, è costretto a rettificare: «Non rappresentiamo tutti i 1500 firmatari». Una precisazione che svela il meccanismo fallace dell’operazione: un gruppo senza struttura, senza trasparenza, senza responsabilità, ma con un logo aggressivo, una comunicazione martellante e una narrazione logora. E ondivaga: V4P in queste ore sulla propria pagina Facebook prima ha rilanciato l’articolo di un blog che nega che nel loro appello ci fossero richieste di censura e poi un lungo post nel quale rivendica come giusto il «boicottaggio culturale» nei confronti di celebrità come Gadot e Butler.

Corteo blindato e identità evaporata

Il corteo di oggi – organizzato da centri sociali, Anpi, sigle sindacali e l’immancabile scorta di Ong di area radicale – non avrà accesso al red carpet. La prefettura ha chiarito che le aree simboliche della Mostra saranno off-limits. La polizia ha predisposto un cordone di sicurezza simile a quelli per le grandi emergenze. È la conferma che la manifestazione non viene percepita come “partecipazione civile”, ma come rischio per l’ordine pubblico.

L’appello lanciato in agosto – “Stop al genocidio, Palestina libera” – pretendeva di costringere la Biennale a pronunciarsi contro Israele. L’esito, però, è stato il contrario: la Biennale ha fatto muro. Il direttore Alberto Barbera ha rifiutato ogni censura: «Estromettere chi sostiene l’esercito israeliano sarebbe una forma di censura». Pietrangelo Buttafuoco, presidente della Biennale, è andato anche oltre: «Mai potrà allineare un atteggiamento coercitivo nei confronti della libertà di espressione». Traduzione: se ne facciano una ragione.

V4P: la macchina che si è smentita da sola

La verità è che V4P ha vissuto di rendita. Senza i nomi di richiamo come Bellocchio, Garrone, Loach o Servillo, il movimento non sarebbe neppure arrivato sui giornali. Ma quei nomi oggi fanno un passo indietro: si dissociano, tacciono, ritrattano. Se volevo proporsi come voce dal basso, in realtà, è emersa un’élite anonima che agisce senza mandato, parlando a nome di centinaia di altri.

Lo stesso logo – “Venice for Palestine” accanto a una macchia rossa – richiama, non casualmente, lo slogan “dal fiume al mare”, la formula con cui Hamas sogna la cancellazione di Israele. Il fatto che tale messaggio sia stato accettato come innocuo da intellettuali e attori, senza uno straccio di riflessione, dice molto del livello di superficialità che ammanta queste battaglie.

Il grande equivoco del “dialogo”

Il cortocircuito è evidente. Gli attivisti pretendono che la Biennale condanni ad oltranza lo Stato ebraico, ma guai se qualcuno condanna Hamas. Si può invocare “resistenza”, ma mai riconoscere che l’ideologia di fondo è quella di un gruppo terroristico. Si possono gridare parole d’ordine, ma non indicare responsabilità storiche. E soprattutto: si può parlare, purché si dica la cosa giusta.

L’estetica della molotov spuntata

Oggi, dalle 15, una motonave partirà da Marghera per traghettare i manifestanti. A bordo, c’è tutta l’iconografia del dissenso posticcio. Quello anni sessanta ridotto ormai a farsa. E l’unico risultato, ad oggi, è che l’area pro-Palestina ha bruciato ogni credibilità residua.

L’impressione generale è che la protesta si sia mossa con troppa arroganza. Al punto che persino i suoi stessi promotori cercano ora di smarcarsi.

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di Alice Carrazza - 30 Agosto 2025