
Utopia sovrana
Redonda e altri Stati fantastici: storie vere di Nazioni immaginarie che sfidano il potere con una certa ironia
Dalla monarchia letteraria caraibica alla repubblica esperantista dell’Isola delle Rose, passando per Sealand e Molossia: viaggio tra micronazioni reali, con bandiere cucite dai pigiami, monete inventate, passaporti simbolici
Ci sono regni che non hanno eserciti, ma pretendono ambasciatori. Stati senza cittadinanza, che rilasciano passaporti. Capitali invisibili, dove si stampano francobolli e si suona un inno. E poi c’è Redonda: un’isola reale, rocciosa e inaccessibile, lunga appena un miglio e larga un terzo, gettata nel Mar dei Caraibi tra Antigua e Montserrat. Nessuno ci abita, nessuna bandiera vi sventola, eppure qualcuno si proclama re. Redonda esiste davvero ma da oltre un secolo conduce una seconda vita: simbolica, letteraria, immaginaria.
Redonda: la corte di poeti, filosofi e alcolizzati
Tutto inizia nel 1880, quando Matthew Shiell, mercante montserratiano di origini irlandesi, organizza una cerimonia di incoronazione per il figlio quindicenne Matthew Phipps Shiel su quello scoglio disabitato. La leggenda narra che il governatore britannico di Antigua, in nome della regina Vittoria, ne abbia autorizzato l’atto — ma nessun documento ufficiale ne dà conferma. Il ragazzo fu proclamato Re Felipe in una momento che, decenni dopo, lui stesso ricorderà come «un giorno di bagordi». Così nasce una monarchia fantastica che si trasmetterà tra scrittori, filosofi e ubriaconi con ambizioni nobiliari.
Uno dei successori più eccentrici fu il poeta John Gawsworth, che si faceva incidere i polsi fino al sangue per sigillare giuramenti con amici di bevute, conferiva titoli in cambio di pinte e si aggirava per Londra in giacca di velluto, spingendo una carrozzina piena di bottiglie vuote. Più tardi venne il letterato Javier Marías, Re Xavier I, che istituì una corte intellettuale: Pierre Bourdieu (duca dello Sradicamento), Umberto Eco (duca dell’Isola del giorno prima), Ian McEwan (duca dei Cani neri), Pedro Almodóvar (duca della Tremula) e Marina Warner (duchessa della Fantasmagoria), a cui nel 2021 fu offerto un ducato. La bandiera fu cucita da un sovrano col proprio pigiama, l’inno composto da un cortigiano improvvisato, le ceneri del fondatore sparse in un piatto. Redonda è reale, ma è la sua finzione a regnare.
Tanti, troppi, Stati immaginari
Redonda è solo l’inizio. Da lì si apre un mondo parallelo: Stati immaginari fondati da uomini troppo liberi per accettare le frontiere altrui. Si chiamano “micronazioni”, ma il termine è fuorviante: non sono né micro né nazioni. Sono dichiarazioni d’indipendenza esistenziale. E, in tempi di globalismo asfissiante, sono anche qualcosa di più: un’alternativa simbolica alla mollezza di certi Stati veri, alla loro stanchezza ideologica, alla burocrazia che ha sostituito il senso.
Il Principato di Sealand: fortezza contro il mondo
Uno dei casi più noti è Sealand. Una piattaforma militare abbandonata nel Mare del Nord, occupata nel 1967 da un ex maggiore dell’esercito britannico, Paddy Roy Bates. La proclamò principato sovrano, issò la propria bandiera e sparò colpi d’arma da fuoco contro le autorità inglesi che cercavano di avvicinarsi. Dichiarò: «Questo è un territorio sovrano. Nessuna legge britannica è in vigore qui». Londra rimase sconcertata, ma lasciò correre.
Sealand esiste ancora. Ha un motto latino (“E Mare Libertas”), un passaporto, e persino una nazionale di calcio. Il Sealand national football team ha disputato partite amichevoli indossando divise rosse e nere, con uno stemma minimalista e nessun inno ufficiale. Non è riconosciuta dalla Fifa, ma ha sfidato squadre di altre entità non riconosciute come la Padania e l’Abkhazia. C’è anche una moneta, il Sealand dollar, coniata per collezionisti.
L’Isola delle Rose
Storia simile, epilogo diverso quella italica del 1968, quando al largo di Rimini, Giorgio Rosa costruisce una piattaforma artificiale di 400 metri quadrati e la proclama Stato indipendente. Nasce così l’Isola delle Rose, con bandiera, moneta, francobolli e persino una lingua ufficiale: l’esperanto. La stazione radio trasmette in onde corte e viene redatto uno statuto. Rosa si proclama presidente. Ma il governo italiano dell’epoca, guidato da Giovanni Leone, non la prende bene e la fa circondare dalla Marina militare, accusa i fondatori di evasione fiscale e smantella la piattaforma.
L’esperimento dura appena 55 giorni, ma la sua eco simbolica si è protratta nel tempo, fino a ispirare un film prodotto da Netflix che ha contribuito a rilanciarne il mito presso il grande pubblico.
Molossia: la parodia dell’America
Altrove, l’ironia si mescola alla malinconia. Il presidente Kevin Baugh della Repubblica di Molossia — un fazzoletto di terra nel deserto del Nevada — indossa l’uniforme verde oliva, cammina impettito, e annuncia ai visitatori che «Molossia è una nazione fiera e sovrana. Noi non siamo soggetti alle leggi degli Stati Uniti». Poi offre biscotti alla cannella, fatti in casa. E ride.
Molossia ha un nemico dichiarato: la Germania Est, con cui è in guerra dal 1983. Il fatto che la Ddr non esista più non ha cambiato nulla. «Noi non dimentichiamo», dice Baugh, con lo stesso tono con cui un capo di stato pronuncerebbe un discorso alla Nazione. Perché Molossia non è una burla. È una parodia talmente accurata da diventare rivelatrice: come uno specchio deformante che restituisce, con più esattezza del reale, la verità grottesca del potere.
L’ultima frontiera dell’immaginazione politica
Questi stati senza esercito, senza debito pubblico, senza popolo e senza Amazon, dicono a loro modo una cosa precisa: che il Leviatano moderno non è più temuto, ma deriso. Eppure continua a soffocarci. Le micronazioni ne rappresentano il ribaltamento simbolico. Non vogliono distruggere lo Stato, ma salvarne l’idea. Non il simulacro che ci governa oggi, ma l’atto fondativo: la polis, il confine, la sovranità.