
Lo Stato che vuole silenzio
Iran, il regime degli ayatollah teme la musica classica: ogni nota potrebbe contenere un messaggio cifrato
Alla Vahdat Hall di Teheran ogni concerto può essere annullato all’ultimo minuto. La sinfonica torna a esibirsi, ma tra censure, divieti per le donne e revoche improvvise
Teheran, inizio primavera. Alla Vahdat Hall, storico teatro d’opera della capitale, è in programma Beethoven. Il pubblico prende posto, ma nessuno sa se il concerto inizierà davvero. Un’email del ministero può arrivare in qualsiasi momento e annullare tutto. Succede spesso. In Iran, la musica è un terreno instabile. Non solo arte: anche esposizione, rischio, negoziazione costante con il potere degli ayatollah.
Iran, la musica come strumento politico
La storia musicale del Paese ne porta i segni. Dopo la rivoluzione del 1979, il suono venne messo a tacere. Non scomparve, ma fu costretto a cambiare forma. Le orchestre furono sciolte, i conservatori chiusi, i teatri trasformati in luoghi sospetti. L’unica musica ammessa era quella religiosa, tradizionale, propagandistica. Il resto – soprattutto la classica occidentale – fu relegato ai margini.
Nel 1980, con l’inizio della guerra contro l’Iraq, la musica fu parzialmente riammessa. Serviva a rafforzare il morale, a consolidare l’identità collettiva. Ma solo entro i confini tracciati dal regime. I musicisti si muovevano in un sistema grigio, dove ogni permesso poteva essere revocato senza preavviso.
Il codice nascosto della sinfonia
La musica classica, priva di parole ma non di significato, è rimasta in bilico. Mai completamente vietata, mai del tutto accettata. Ha continuato a esistere in uno spazio ambiguo, dove ogni concerto può trasformarsi in atto politico. Come accadde nell’Ottocento italiano con il celebre “Viva Verdi”, omaggio al compositore e, insieme, acrostico patriottico: “Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”. Anche a Teheran, ogni nota può contenere un messaggio cifrato.
La stagione dimenticata dell’arte
Durante gli anni della monarchia, la musica era parte del progetto di modernizzazione. L’Orchestra Sinfonica di Teheran (1933), la National Ballet Company (1958), e la Roudaki Hall (1967) testimoniavano l’ambizione di inserire l’Iran nella geografia culturale globale. La scena era intensa, pubblica, variegata. Poi arrivò la frattura: tutto ciò che veniva percepito come occidentale fu ricacciato nell’ombra.
Resistenze sotterranee
La musica è sopravvissuta nei salotti privati, nei circoli informali, nei garage. Negli anni duemila, con l’elezione del riformista Khatami, si aprì qualche spiraglio. L’arrivo di Hassan Rouhani nel 2013 rilanciò l’Orchestra Sinfonica. Per la prima volta dal 1979, una cantante donna si esibì pubblicamente in un’opera lirica. Non fu una rivoluzione, ma un precedente.
Un diritto sotto attacco
La musica in Iran è oggi un campo di contesa. La sua esistenza mette in discussione l’idea di cultura come monopolio dello Stato. Quando Ali Rahbari, direttore d’orchestra, di fronte all’ennesimo tentavo di imbavagliare l’arte dichiarò: «Ci esibiremo tutti insieme o lasceremo la sala. Finché sarò il direttore di quest’orchestra, non permetterò questo tipo di trattamento». Era il 2015. Cambiò poco. Concerti annullati all’ultimo minuto, permessi revocati senza spiegazioni, esecutrici escluse.
Una generazione che chiede ascolto
Nonostante tutto, la domanda di cultura è altissima. I concerti fanno il tutto esaurito. Le scuole di musica si moltiplicano. I giovani creano ensemble nei quartieri periferici, mescolano santur ed elettronica, jazz e melismi persiani. Perché l’Iran è un Paese giovane: oltre il 60% della popolazione ha meno di 35 anni. Una generazione, dunque, creativa, determinata e affamata di libertà espressiva.
La protesta in musica
Per capire il valore che queste generazioni attribuiscono alla musica, è necessario fare un passo indietro. Durante le proteste successive alla morte di Mahsa Amini, in molti hanno usato le canzoni come strumento di ribellione contro il regime. Non solo in Patria, ma anche dalla diaspora, i giovani iraniani danzavano in diretta TikTok sulle note di Snowman di Sia o Viva la Vida dei Coldplay, in segno di vicinanza a chi manifestava contro le violenze dell’Irgc. Anche questo è linguaggio politico.