
Altro che cultura del trauma
Un anno dopo l’attentato di Butler: Trump ha ragione, a volte il modo migliore per pensare è non pensarci
The Donald a mente fredda: «Non mi piace rimuginarci, perché se lo facessi, potrebbe cambiarmi la vita, e non voglio che sia così. Apprezzo il potere del pensiero positivo, o del pensiero positivo non-pensante»
Un anno fa, a Butler, Pennsylvania, un proiettile attraversò l’orecchio destro di Donald J. Trump. Millimetri più a sinistra, e l’America avrebbe assistito in diretta all’omicidio di un presidente in corsa. Invece, assistette alla sua resurrezione. Il sangue sul volto, il pugno alzato, il grido rauco: «Fight, fight, fight!». Era il 13 luglio 2024, e l’immagine iconica fece il giro del mondo, cristallizzando un istante che spaccò l’America in due: chi cade e resta giù, e chi si rialza, si pulisce la polvere e va avanti.
Un anno dopo Butler: cosa pensa Trump?
Oggi non vale più la pena interrogarsi sulla traiettoria del colpo. Più utile seguire la traiettoria della mente. Quella che, nonostante tutto, non si è lasciata deformare dall’evento. Trump, intervistato dalla Bbc a un anno esatto da quell’attentato, ha risposto così alla domanda se fosse cambiato da quel giorno: «Non mi piace rimuginarci, perché se lo facessi, potrebbe essere… sai, potrebbe cambiarmi la vita, e non voglio che sia così. Apprezzo il potere del pensiero positivo, o del pensiero positivo non-pensante»
Una dichiarazione che sembra scritta da Chesterton, dettata da Seneca, ma pronunciata con il tono di un costruttore del Queens. Eppure, dice più sulla condizione dell’Occidente contemporaneo di intere biblioteche di sociologia.
Il trauma come feticcio sociale
Viviamo nel tempo della psicoterapia obbligatoria, dei traumi esibiti, della debolezza esaltata a tratto distintivo. Tutto deve essere raccontato, condiviso, pianto, metabolizzato sotto lo sguardo di uno specialista o di un pubblico pagante. Il dolore è diventato una moneta sociale. E la soppressione, o anche solo la dignitosa reticenza, viene accusata di essere tossica. Eppure, come dimostra uno studio pubblicato dall’Università di Cambridge, sopprimere pensieri negativi, lungi dal danneggiare la mente, può migliorarla. Soprattutto se quei pensieri non vengono ripetuti come rosari televisivi o status sui social.
È il cosiddetto “trauma plot”, come lo definì tempo fa Parul Sehgal sul New Yorker – una narrativa stanca, monodimensionale, dove tutto è spiegato da una ferita e nulla è superato. L’identità si plasma intorno al danno, non alla reazione. Il passato detta il presente, e la libertà individuale si scioglie nella predestinazione emotiva. Sehgal scrisse: «Il trauma è stato accettato come un’identità totalizzante». Ma l’identità non si costruisce con la diagnosi, si forgia nella scelta. E Trump, scegliendo di non pensarci, ha fatto politica nel senso più nobile del termine: ha detto no alla vulnerabilità come spettacolo.
Resistere è meglio che lamentarsi
Chiunque abbia avuto un dolore vero, lo sa. Il peggio non è la cicatrice, ma il coro intorno che ti invita a “cantarla” ogni giorno. Il dolore può fare un uomo, ma la sua teatralizzazione lo rende buffone. E allora il “pensiero positivo non-pensante” diventa un atto di ribellione. Un bastone contro l’introspezione come religione. Una bestemmia laica in un mondo che pretende l’analisi interiore come confessione pubblica.
Le nuove generazioni sono state educate all’autoanalisi compulsiva, spacciata per consapevolezza. A furia di scavare nel sé, si è smarrito il noi. Il disagio è diventato status symbol. Tutti vogliono essere vittime, nessuno vuole essere uomo.
Gli influencer del vittimismo
Le giovani donne che studiano filosofia e piangono su TikTok, gli influencer che danno in pasto il loro sfogo in live su Instagram, sono oggi statisticamente i più ansiose del mondo. Gli altri, che invece costruiscono il loro percorso e lavorano in silenzio, vengono bollati come insensibili. I primi affollano gli studi degli psicologi, i secondi fanno salire il Pil. Eppure, paradossalmente, i primi si credono lucidi, i secondi si sentono soli. Entrambi sono vittime di una cultura che ha scambiato l’espressione dei sentimenti per gestione dei sentimenti. E no, non è la stessa cosa.
Il comandante, non il martire
Chi si lamenta troppo della vita in pubblico, forse dovrebbe chiudere la bocca per qualche minuto e rileggersi Marco Aurelio: «Piuttosto che dire “È sfortuna che mi sia successo questo” dovresti dire “È fortuna che, sebbene mi sia successo questo, posso sopportarlo senza dolore, né schiacciato dal presente né timoroso del futuro”».
È questa la lezione di Trump, in fondo. Non quella del martire, ma quella del comandante. Non la santificazione del trauma, ma la sua rimozione consapevole. Un pensiero positivo che non è finto ottimismo, ma autentico dominio. Una mente che decide cosa pensare e cosa no. E se questo significa esercitare il potere del “pensiero positivo non-pensante”, ben venga.