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Thailandia-Cambogia

La guerra secolare

Thailandia-Cambogia, ritorno alla polvere da sparo: esplode il fronte conteso del Tempio maledetto

Sedici morti, in gran parte civili thailandesi. Scambi di artiglieria, accuse di crimini di guerra e veto alla mediazione internazionale: la disputa storica esplode di nuovo lungo il confine conteso. Attaccato anche un ospedale: «Tali azioni devono avere delle conseguenze»

Esteri - di Alice Carrazza - 25 Luglio 2025 alle 11:51

I carri avanzano, i cingoli scavano la terra rossa, i missili attraversano la linea d’ombra che separa due Paesi da sempre troppo vicini. La frontiera tra Thailandia e Cambogia brucia ancora una volta, come nel 2011, come nel 2008, come ogni volta che la storia torna ad avvelenare la geografia. Le ostilità sono riesplose lungo un tratto conteso di confine, con scambi di artiglieria pesante, missili lanciati da semoventi e raid aerei. Il bilancio, provvisorio, parla di almeno sedici vittime – in gran parte civili thailandesi – e decine di feriti.

Thailandia-Cambogia: “No” alla mediazione internazionale

«Non credo che abbiamo bisogno della mediazione di un paese terzo, per il momento», ha dichiarato Nikorndej Balankura, portavoce del ministero degli Esteri thailandese, rispondendo alle offerte di dialogo avanzate da Stati Uniti, Cina e Malesia. Bangkok chiude la porta alla diplomazia multilaterale e insiste su un approccio bilaterale: «Rimaniamo fermi nella nostra posizione: il meccanismo bilaterale è la via migliore per uscirne, si tratta di uno scontro tra due paesi. Le nostre porte restano aperte».

Escalation di accuse e bombe

Ma sul fronte non si aprono porte: esplodono mine e si lanciano razzi, come si vede nei video. Tre soldati thailandesi sono saltati in aria lungo una strada di pattuglia. Da lì, l’escalation: espulsione reciproca degli ambasciatori, accuse incrociate, ritorsioni militari. L’aviazione thailandese ha mobilitato i suoi F-16; dalla Cambogia sono piovuti razzi che, in un caso, hanno centrato un 7-Eleven, un negozio pieno di clienti. Il ministero della Salute thailandese ha denunciato l’attacco a un ospedale come infrazione della Convenzione di Ginevra. «Tali azioni devono avere delle conseguenze», recita il comunicato.

Phnom Penh si appella all’Onu

Dall’altra parte, Phnom Penh si appella all’Onu. Il premier cambogiano Hun Manet — figlio del longevo leader politico Hun Sen, governante del Paese per quarant’anni — ha chiesto una riunione d’emergenza del Consiglio di sicurezza per condannare quella che ha definito «aggressione militare premeditata e non provocata». Il ministero della Cultura cambogiano ha aggiunto che l’attacco al tempio di Preah Vihear, patrimonio mondiale dell’Unesco, «può costituire un crimine di guerra».

Una disputa lunga più di un secolo

Il conflitto, in ogni caso, pulsa da un secolo. Il contenzioso ruota attorno a un pezzo di frontiera tracciato nel 1904 dai cartografi francesi, quando la Cambogia era parte dell’Indocina francese e la Thailandia un regno indipendente. Due templi – Preah Vihear e il “gemello” Prasat Ta Muen Thom – vennero inseriti nelle mappe coloniali dalla parte cambogiana, sebbene per decenni fossero stati frequentati e rivendicati dai thai. Bangkok continuò a rivendicare la propria sovranità sulla provincia che coreografi d’Oltralpe annessero «di soppiatto» al loro possedimento coloniale. Nel 1962 fu la Corte internazionale dell’Aja ad assegnare Preah Vihear alla Cambogia. Nel 2013 ribadì il verdetto in seguito al sanguinoso scontro di soli due anni prima.

Il Tempio maledetto

Il Tempio – così lo chiamano entrambi i popoli – si staglia su uno sperone di roccia a 525 metri d’altitudine, consacrato a Shiva nell’XI secolo. Per i thailandesi è Phra Viharn, per i cambogiani è Preah Vihear. Per tutti, è un simbolo. E quando l’economia non basta più a tenere a bada l’identità, si torna a quella vetta. E lì si spara.

Micce politiche

A maggio un primo scontro aveva visto morire un soldato cambogiano. Poi era seguita una telefonata distensiva fra Paetongtarn Shinawatra, premier thailandese e figlia del controverso Thaksin, e Hun Sen, ritiratosi solo formalmente. Ma il tono di quella chiamata – la giovane leader thailandese aveva chiamato Hun Sen “Lung”, zio – aveva irritato i generali di Bangkok. L’epilogo è noto: inchiesta, destituzione della premier, crisi riaperta.

Strategie e interessi nascosti

Per i nazionalisti thai, quella guerra è un buon pretesto per invocare un ritorno all’ordine militare. Per Phnom Penh, un’occasione per saldare il potere del nuovo premier dietro le insegne della Patria aggredita. Per entrambi, un modo per distrarre l’opinione pubblica. La Cambogia, oggi, è un paradiso delle truffe digitali, un groviglio di centrali scam tollerate dalle autorità. La Thailandia, pressata da Pechino a intervenire, ha trovato nella frontiera un utile diversivo.

Il ruolo incerto dell’Asean

Nel frattempo, l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico osserva. Anwar Ibrahim, premier malese e presidente di turno del blocco regionale, ha parlato con entrambi i leader. Ha chiesto pace. Ma l’Asean si muove a fatica, frenata da regimi autocratici e rivalità secolari. «Se la famiglia Asean desidera facilitare un ritorno a negoziati bilaterali costruttivi, ciò è ben accetto», ha dichiarato infine il portavoce thailandese Nikorndej.

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di Alice Carrazza - 25 Luglio 2025