
Dal libro di Valditara
Per nascita e per scelta: l’identità non è solo radici, è anche desiderio di appartenenza. Ed è nemica dell’improvvisazione
Pubblichiamo un estratto del saggio "La rivoluzione del buon senso. Per un Paese normale", scritto dal ministro dell'Istruzione e del Merito
Per gentile concessione dell’editore, Casa Editrice Guerini e Associati, pubblichiamo un estratto del libro del ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, “La rivoluzione del buon senso”.
Nella storia occidentale l’identità è sempre stata legata agli avi e ai propri discendenti, coloro da cui si è ricevuto e coloro a cui si intende trasmettere; pertanto l’identità è legata alla famiglia, alla propria casa, al territorio dove si è nati o che si è stabilmente eletto come proprio e dunque innanzitutto alla patria come luogo di appartenenza, non a caso la “terra dei padri”, ovvero degli antenati; quindi l’identità è indissolubilmente connessa a un modo di vivere, a una comune mentalità, a un sistema di valori che caratterizzano chi vive con noi in un certo spazio fisico.
Il territorio è certamente sempre stato il luogo dell’identità, basti leggere le nostalgiche parole del Manzoni nel famoso «Addio monti» de I promessi sposi: «Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!».
L’identità presuppone certezza, ancoraggio, stabilità. Presuppone un mondo solido, è nemica di un mondo liquido. Presuppone serietà, è il contrario dell’improvvisazione. Favorisce un’innovazione ragionata e meditata. Scrive bene Edmund Burke (in Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia): «La mania dell’innovazione improvvisata è di solito rivelatrice di sentimenti egoistici e di angusti orizzonti mentali. Essa è propria di gente che non si preoccupa di guardare avanti verso i posteri né rivolge il proprio pensiero indietro ai suoi antenati».
Il concetto di identità poggia anche sull’idea di nazione. Nell’antica Roma il termine natio, con il suo riferimento soprattutto etnico, non consente di esprimere il concetto moderno di nazione. Più significativi erano i termini populus (Romanus), res publica, civitas: l’adesione ai valori cittadini e repubblicani così come formatisi nel corso di più generazioni, attraverso una lenta e graduale sedimentazione che aveva le sue radici nel mos maiorum, ovverosia nella tradizione e nei costumi ereditati dalle passate generazioni, era ciò che scolpiva il sentimento identitario.
L’idea identitaria romana è dunque qualcosa di più profondo e di più vitale rispetto al più semplice e più transeunte «patriottismo costituzionale», proposto alla fine del XX secolo da Jürgen Habermas, come semplice condivisione delle norme fondanti una Repubblica. Presuppone infatti l’immedesimazione nella tradizione di un popolo, l’accettazione di modelli di comportamento e dunque di uno stile di vita.
Jean-Jacques Rousseau, che già metteva in guardia dai rischi del cosmopolitismo, sottolinea l’importanza dell’elemento volontaristico nella costruzione del concetto di nazione, ovverosia il desiderio di appartenere a un determinato insieme di cittadini. La nazione, rispetto all’antica concezione identitaria che era semplicemente sentita, «è ora anche voluta».
[Capitolo 3 – Una svolta culturale, 3.8 L’identità, Identità e nazione, pp. 118-119]