
L'intervista
«Sui referendum la sinistra si è dimostrata ideologica e autolesionista». Parla Luca Ricolfi
Dopo la débâcle sui referendum il sociologo affida al Secolo d'Italia le riflessioni sullo stato di salute del campo largo. I suoi dirigenti? «Ragionano in modo ideologico: convinti che le loro battaglie fossero sacrosante si sono montati a vicenda». E ora? «Le possibilità di resurrezione non mancano ma dipendono più da eventuali possibili errori del centro-destra che da una maturazione della sinistra»
Nessun avviso di sfratto al governo Meloni, anzi. A una settimana del voto referendario su Jobs Act e Cittadinanza, andato molto al di sotto delle aspettative dei promotori, nel campo progressista si fa fatica a trovare il bandolo della matassa. «È stato un atto autolesionista», spiega al Secolo d’Italia il sociologo Luca Ricolfi, accademico cresciuto a sinistra che da anni non lesina critiche, anche corrosive, ai suoi. Fallita la spallata di Landini e soci all’Esecutivo c’è da fare i conti col presente. E ora? «Le possibilità di resurrezione non mancano – spiega – ma dipendono più da eventuali possibili errori del centro-destra che da una maturazione della sinistra».
Professore, a urne appena chiuse, aveva parlato della «Caporetto delle opposizioni». Restando alle immagini offerte dalla Grande Guerra, chi sarebbe il Cadorna di questa rotta?
«Non c’è un Cadorna, i dirigenti della sinistra (salvo quelli dei 3 “cespugli”: Renzi, Calenda, Magi) hanno una naturale, condivisa, compulsiva attitudine a ragionare in modo ideologico. Si sono convinti che le loro battaglie fossero sacrosante, e si sono montati a vicenda».
Nessun leader è più responsabile di altri?
«Non credo proprio che, fra i “magnifici 5” Landini-Schlein-Conte-Bonelli-Fratoianni, se ne possa indicare uno in particolare, che avrebbe trascinato gli altri 4 al disastro. Tutti e cinque sono vittime dell’attrazione fatale per le grandi mobilitazioni – nelle piazze o alle urne – che da sempre affligge la sinistra».
Una parte degli osservatori ha avuto la sensazione che la consultazione di domenica scorsa abbia rappresentato l’ennesimo congresso a cielo aperto tra dem, lo pensa anche lei?
«No. Un congresso si svolge alla luce del sole, con interventi e mozioni contrapposte, e lo scopo è scegliere una linea fra due o più linee possibili…»
Cosa ha rappresentato, allora?
«Abbiamo assistito a una sorta di regolamento di conti interno al campo largo, con lo scopo dichiarato di liquidare i riformisti. Quando i dirigenti Pd, per giustificare la mobilitazione referendaria, dicono che si voleva certificare che il partito è cambiato, che non è più quello del Jobs Act, e che in passato la sinistra ha sbagliato, si ammette implicitamente che i referendum (quelli sul lavoro, in particolare) sono stati usati per liquidare Renzi e indebolire il moderato Bonaccini».
Ecco, perché i quesiti sul lavoro non hanno suscitato la mobilitazione auspicata?
«Perché erano troppo tecnici, e dagli effetti incerti o modesti. Pochi credono che le cose sarebbero migliorate sensibilmente in caso di approvazione dei quesiti».
I numeri del quesito sulla cittadinanza, invece, hanno palesato uno scollamento, cos’è che Cgil e partiti del campo progressista non hanno compreso del loro elettorato?
«Due cose, direi. La prima è che il problema del precariato non è prioritario, stante l’ottimo andamento, quantitativo e qualitativo, dell’occupazione. La seconda è che la domanda di sicurezza è così forte da affossare anche un referendum tutto sommato innocuo e non irragionevole come quello sulla cittadinanza».
Abbiamo assistito al tentativo di attribuire una lettura politica assolutoria al dato numerico dei partecipanti. Professore, quand’è che la somma fa il totale?
«Le due cifre – quella dei votanti ai referendum e quella dei votanti pro-Meloni alle politiche – non sono comparabili. Il numero di votanti pro-Meloni è inflazionato dal tasso di partecipazione al voto (64% anziché 30%). Quello dei votanti al referendum è inflazionato dagli elettori di destra che sono andati a votare ai referendum (almeno 1 votante su 5, probabilmente di più)».
In altri termini…
«Sono due cifre che nessuno studioso serio metterebbe a confronto. Ma Francesco Boccia, che pensava di usare i referendum per “dare l’avviso di sfratto al governo Meloni”, non è uno studioso…»
Professore, Riccardo Magi ritiene che l’istituto referendario debba essere riformato abbassando le percentuali del quorum: è una proposta ricevibile?
«Sabino Cassese, che sul tema è un esperto, ha chiarito definitivamente perché il quorum fu previsto dai Padri costituenti, e perché abbassarlo sarebbe sbagliato: se si vuole abrogare una legge del Parlamento, non si può permettere che a cancellarla sia una minoranza di votanti».
Ci faccia capire, professore.
«Già con il quorum posto al 50%, l’abrogazione potrebbe – in teoria – essere ottenuta con poco più di un quarto degli aventi diritto al voto: il 50% + 1 di sì, con il 50% di partecipazione al voto».
Si tratta, allora, di uno strumento che ha esaurito la sua spinta storica?
«Il problema vero è che del referendum si è abusato, nel duplice senso che ne sono stati fatti troppi, e troppe volte su quesiti poco rilevanti e/o poco coinvolgenti: chi di referendum colpisce, di referendum perisce».