
La guerra tra Israele-Iran
«Per raggiungere la de-escalation è necessario lo sforzo negoziale degli Stati Uniti». Parla il generale Cuzzelli
Intervista al generale Cuzzelli sull'ennesimo fronte nella crisi mediorientale. Per l'esperto di sicurezza internazionale ciò che sta avvenendo è la prosecuzione di un conflitto che, dal 1979, vede la Repubblica islamica opposta a Israele: «Un conflitto che non è stato avviato da Israele, ma trae origine dalla manifesta ostilità che, sin dalla sua nascita, la Repubblica iraniana ha nutrito nei confronti dello Stato ebraico»
Giorgio Cuzzelli è generale di brigata dell’Esercito italiano in congedo ed esperto di sicurezza internazionale. Attualmente è in forza all’università Lumsa e si occupa di studi strategici e scenari diplomatici. Alle spalle ha una lunga esperienza sul campo, con operazioni nei Balcani e in Afganistan. Un tecnico a tutti gli effetti, insomma. Per questo gli abbiamo chiesto qual è la posta in gioco nell’attuale scontro mediorientale.
Generale, al netto della naturale ondata di preoccupazione mondiale circa il rischio di una escalation, cosa sta realmente accadendo tra Israele e Iran?
«Ciò che avviene attualmente è la prosecuzione di un conflitto che, dal 1979, vede la Repubblica islamica opposta a Israele. Un conflitto che, è bene ricordarlo ai lettori, non è stato avviato da Israele, ma trae origine dalla manifesta ostilità che, sin dalla sua nascita, la Repubblica iraniana ha nutrito nei confronti dello Stato ebraico. Lo scontro in corso, lungo tale storia, rappresenta un passaggio fondamentale».
Quale?
«In questo momento è in atto da parte di Israele una campagna militare che ha come finalità strategica l’eliminazione della possibilità da parte dell’Iran di acquisire un ordigno nucleare. Ordigno che Israele considera una minaccia esistenziale, per motivi che possiamo ben comprendere. I fatti di questi giorni avvengono dopo interlocuzioni diplomatiche durate decenni. Ma anche dopo un trattato sponsorizzato dalla comunità internazionale che ha mostrato tutti i suoi limiti – ma che era meglio di niente, come ogni altro trattato – e la decisione statunitense di tirarsene fuori. Aggiunga pure le ripetute oscillazioni diplomatiche della Repubblica islamica, che ha dato prova sostanziale di voler continuare a perseguire l’obiettivo nucleare. Ecco: dopo tutto questo, Israele ha deciso di attaccare e di eliminare il problema una volta per tutte».
Perché proprio ora, generale?
«Verosimilmente per la contemporanea presenza di alcune condizioni abilitanti. La prima: l’Iran ha dato l’impressione di essere sulla soglia non della costruzione di una bomba atomica, ma quantomeno della disponibilità di materiale atto a costruirla. Secondo punto: la particolare finestra di opportunità politico-militare dovuta ai colpi massicci che Israele ha assestato all’Iran e ai suoi succedanei in Libano, in Palestina e nello Yemen. In terzo luogo: lo stato di estrema debolezza delle difese aeree iraniane, rivelato dagli scontri dell’anno passato. In quarto luogo, la crisi profonda del Regime, tant’è vero che i servizi segreti israeliani sono stati in grado di agire quasi indisturbati sul territorio iraniano. E da ultimo, e questo è forse l’aspetto di politica internazionale più rilevante, l’incertezza israeliana sui reali obiettivi dell’amministrazione Trump».
Cosa intende?
«La linea ondivaga dell’amministrazione americana, segnata da scelte non sempre comprensibili, ha fatto sì che Israele non ritenesse scontato il finora sempre garantito appoggio statunitense, tanto da decidere di prendere in mano il proprio destino e di fare di testa propria. Mettendo Trump, quindi, davanti al fatto compiuto».
Come va letta quindi la postura del governo Usa?
«Beh, qui c’è da chiedersi se Trump abbia subìto l’iniziativa israeliana o se fosse stato informato per tempo. Quale che sia la verità, l’iniziativa l’ha presa Israele e gli statunitensi si sono, in qualche modo, accodati secondo quella logica di opportunismo dettata dalle circostanze che è tipica della politica trumpiana. Il presidente americano adesso ha l’evidente volontà di intestarsi la vittoria tattica conseguita da Israele per poter decidere le prossime mosse».
Come si colloca l’intervento israeliano nel campo del diritto internazionale?
«In una zona al limite. Una parte degli studiosi ritiene tollerabile l’avvio di un’azione preventiva quando si è in presenza di una minaccia chiara e determinata contro di sé. A livello ONU è riconosciuto il diritto all’autodifesa. È altrettanto vero, tuttavia, che secondo altri studiosi l’autodifesa preventiva è ritenuta di difficile dimostrazione. In tal senso – e mi riferisco alla guerra del 1967 – esistono dei precedenti che riguardano sempre Israele e la capacità di farsi carico del proprio destino».
Ritiene ipotizzabile che il conflitto in corso possa evolversi in uno scontro nucleare?
«Non capisco chi dovrebbe scatenarlo. L’Iran non ha alcuna bomba atomica: non ha fatto in tempo a dotarsene. Israele, invece, contro chi dovrebbe utilizzarla? E gli Stati Uniti, verso quale obiettivo? Credo che il dibattito sulla guerra atomica sia campato in aria e condotto ad arte per sollecitare un’opinione pubblica poco informata a schierarsi tendenzialmente contro Israele, gli Stati Uniti e l’Occidente tutto».
Generale, nell’ultima settimana abbiamo assistito alla contesa tra due stati sovrani che, attraverso i missili, si stanno colpendo reciprocamente: che tipo di guerra è?
«È un conflitto cinetico. Uno scontro cioè dove è utilizzata la violenza in forma istituzionale per conseguire degli obiettivi strategici. Nel caso d’Israele, si tratta di un obiettivo esistenziale: la sopravvivenza dello Stato. Nel caso dell’Iran, per una volta si tratta di difendersi anziché di attaccare. Tuttavia, non è una guerra dichiarata e per il diritto internazionale, quindi, non possiamo considerarla tale. È certamente un conflitto armato, questo sì».
Esclusa la possibilità di una guerra atomica, è possibile invece che siano schierati i soldati in campo?
«Si tratta di un caso che non ritengo postulabile. La possibilità che Israele possa invadere l’Iran non ha alcun fondamento nella realtà. La stessa cosa vale circa l’ipotesi che gli Stati Uniti possano entrare nel territorio della Repubblica. Diverso è il caso per quanto riguarda l’impiego clandestino di sabotatori e agenti, che è sempre esistito da che mondo è mondo».
Trump ha minacciato l’intervento armato: che intervento sarebbe?
«Il presidente allude verosimilmente ad attacchi aerei mirati in direzione di quel potenziale nucleare iraniano che, in apparenza, ancora non è stato colpito o che non è stato completamente distrutto».
Il governo italiano ha parlato della necessità di una de-escalation: chi o cosa dovrebbe favorirla?
«Serve lo sforzo negoziale da parte dell’unico interlocutore dotato di peso sufficiente, di credibilità sufficiente, per indurre entrambe le parti a dialogare. Mi riferisco agli Stati Uniti, ovviamente. Trump, anziché minacciare di intervenire, dovrebbe mettersi al tavolo con i due interlocutori e stabilire una serie di punti fermi. L’America, attraverso il bastone e la carota, può realmente indurre l’Iran a sospendere il programma nucleare e, allo stesso tempo, garantire a Israele le condizioni necessarie alla continuità esistenziale».
C’è ancora spazio, dunque, per la diplomazia?
«Certamente, occorre trovarlo. Dobbiamo tuttavia garantire la sopravvivenza d’Israele: non è possibile che essa debba prendere il proprio destino in mano perché nessuno è disposto a difenderla. Il sistema internazionale è tornato nella piena anarchia. Bisogna perciò ristabilire il diritto. E mi lasci dire un’ultima cosa…».
Prego.
«In molte piazze italiane vedo una strana consonanza con l’Iran in nome di una pretesa pace universale. Dal 1979, insisto, la Repubblica islamica vuole la distruzione d’Israele. Chi sostiene la causa iraniana ne è consapevole? Immagino di no. E tutto ciò mi lascia molto perplesso».