CERCA SUL SECOLO D'ITALIA

pax trumpiana

L'intervista

Pax trumpiana (e timore reciproco): la forza torna al centro della politica estera

Roberto Arditti, autore di Hard Power, spiega il ritorno della deterrenza nella gestione delle relazioni tra potenze: "Siamo di fronte a un equilibrio costruito sul timore reciproco. È una tregua che non si dichiara, ma si impone con i fatti. Ed è proprio per questo che funziona"

Esteri - di Alice Carrazza - 29 Giugno 2025 alle 08:27

Tutti rivendicano una vittoria. Nessuno firma la resa. Sotto le macerie delle grandi crisi — da Gaza a Kiev, da Taiwan all’Iran — è emersa una nuova forma di ordine: disordinato, intermittente, ma stranamente efficace. È la “Pax trumpiana”. Una pace fredda, fondata non sull’armonia, ma sull’equilibrio della paura. Ne parliamo con Roberto Arditti, giornalista, saggista e  autore di Hard Power. Perché la guerra cambia la storia, edito da Giubilei Regnani.

Dottor Arditti, Stati Uniti e Iran escono dallo scontro entrambi con qualcosa da rivendicare. Ma se nessuno ha perso, che tipo di equilibrio si sta delineando?

«È un equilibrio inedito, fondato su un paradosso: nessuno è stato sconfitto apertamente, eppure qualcuno ha chiaramente pagato un prezzo altissimo. Il sistema di potere iraniano è stato colpito nei suoi nervi vitali: sono state eliminate figure di primissimo livello — tra militari, dirigenti dell’intelligence e scienziati del programma nucleare. È un colpo chirurgico, ma devastante. Chi oggi subentra a quei ruoli lo fa con la consapevolezza concreta di ciò che è accaduto ai predecessori. È una forma di intimidazione lucida, che produce effetti reali. Non siamo di fronte a una vittoria da celebrare in piazza, ma a un equilibrio che nasce dalla paura. E, nel linguaggio crudo della geopolitica, funziona».

Un equilibrio costruito sulla deterrenza più che sulla diplomazia. È questa la Pax trumpiana?

«Sì, è una pace armata. Non è più la pace del diritto, ma del calcolo e della paura. A giugno 2025 Israele ha dimostrato al mondo — anche al mondo islamico — di saper colpire il cuore del sistema iraniano. Non figure simboliche, ma i veri nodi di comando: le Guardie della rivoluzione, i tecnocrati nucleari, gli apparati operativi. E lo ha fatto senza toccare formalmente le figure “di governo”, che in Iran hanno un valore decorativo. Il potere reale non sta nelle mani dei ministri, ma nel nucleo teocratico-militare legato alla Guida suprema. E quello è stato colpito».

C’è chi parla di paralisi dell’apparato militare iraniano. È una forzatura?

«Non direi. L’operazione ha dimostrato che l’Iran, dal punto di vista difensivo, è nudo. La sua aviazione non si è vista, nessun aereo è riuscito a contrastare gli attacchi. Supremazia aerea totale: cento a zero. E questo, nella cultura strategica della regione, significa perdere la faccia. La guida suprema ha fatto un discorso televisivo acceso, certo, ma ha evitato lo scontro diretto. Perché? Perché ha capito che la partita non era giocabile».

Siamo in presenza di un nuovo equilibrio mondiale o solo del congelamento dei conflitti?

«Siamo in una fase fluida, ma non caotica. È un sistema instabile, ma gestibile. E la storia non conosce equilibri stabili: chi lo pensa, si illude. Quel che vediamo oggi è l’articolazione di nuovi rapporti di forza. Siamo fuori dalla stagione bipolare Usa-Urss. E siamo oltre anche la globalizzazione soft, da Clinton a Obama. Oggi gli Stati Uniti restano una potenza, ma non sono più il gigante solitario. Cina, India, Turchia, Sudafrica, Indonesia… La storia torna a essere fatta da chi ha giovani, demografia, energia. E Trump prova a disciplinare questa nuova realtà».

Possiamo dire che gli Stati Uniti hanno abbandonato la missione universalistica per concentrarsi sul contenimento?

«Assolutamente sì. E non è un difetto, è realismo. Gli Usa non possono più farsi carico di tutti i focolai. Ma non possono nemmeno permettersi un mondo in fiamme. Devono esercitare una forma di sorveglianza, anche aspra. Come ha detto Kennedy nel 1963, l’alleanza transatlantica deve essere equa anche nei costi. Oggi, per la prima volta, in Germania si è messo nero su bianco questo principio. Nessun presidente europeo c’era riuscito. Trump l’ha imposto. E oggi tocca anche a noi, come Italia, fare la nostra parte».

Elly Schlein e parte dell’opposizione italiana hanno contestato il richiamo al motto latino “Si vis pacem, para bellum”, sostenendo che il mondo sia cambiato. Ma è davvero così? 

«Chi lo dice, sbaglia. Nessuna azione politica credibile può prescindere dalla forza. Lo scrivono tutti i grandi pensatori, da Foucault a Mao. Penso al bellissimo film su Golda Meir: Kissinger le dà 18 ore per trattare, e lei in quelle 18 ore ordina un attacco. Poi si siede al tavolo. Questo è il punto: senza deterrenza, la diplomazia è carta straccia. La politica è fatta anche — e soprattutto — di potere. Come rispose Stalin: “Quante divisioni ha il Papa?”».

Nel suo libro descrive la ritirata da Kabul come «il peggior servizio possibile alla credibilità mondiale dell’Occidente». È lì che l’America ha capito di dover cambiare rotta?

«Sì, Kabul è stato un disastro epocale. Ha mostrato che il progetto di “esportare la democrazia” era finito. La prima amministrazione Trump lo aveva già intuito: niente truppe nei pantani ingestibili. In Afghanistan c’erano ancora soldati americani, ma Trump voleva uscire. E aveva ragione. Chi resta in scenari simili, oggi — in Libia penso ai turchi e ai russi — lo fa con un messaggio chiaro: “noi non ce ne andiamo”. Questa credibilità è fondamentale. Il potere locale non si allea con chi è percepito come provvisorio. O dimostri di esserci per sempre, o verrai sostituito».

Per chiudere, come definirebbe oggi la Pax Trumpiana? È davvero un nuovo paradigma globale?

«La Pax Trumpiana è un tentativo di ordine attraverso la forza. Non è ordine nel senso classico, ma un’architettura intermittente, adattiva, realista. Gli Stati Uniti spingono per la pace, ma sanno che non possono rinunciare all’uso della forza. Anzi, la impiegano strategicamente proprio per rendere possibili degli equilibri accettabili. È una diplomazia che parte da una consapevolezza: la forza non è l’eccezione, ma la premessa. E senza forza, oggi, nessuna pace è possibile».

Non ci sono commenti, inizia una discussione

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

di Alice Carrazza - 29 Giugno 2025