
A 220 anni dalla nascita
Gli imbarazzi della sinistra sull’anniversario di Mazzini, padre della Patria e paladino dei “doveri” nazionali
Lascia costernati il disinteresse dei mass-media italiani in occasione del 220mo anniversario della nascita di Giuseppe Mazzini (Genova, 22 giugno 1805 – Pisa, 10 marzo 1872).
Certi attuali “silenzi” non nascono per caso. Quello che è stato definito l’apostolo della Patria e del Lavoro, il padre spirituale della Repubblica italiana, non è oggettivamente una figura facile, letta, interpretata e “vissuta” in termini eterogenei sia durante il periodo monarchico che dal fascismo, sia nell’Italia della Guerra Civile che in quella della Prima Repubblica. Difficile districarsi nella grande messe di citazioni e di richiami alla primogenitura. Difficile individuarne l’erede perfetto, che forse non esiste perché Mazzini appartiene alla Storia italiana nella sua interezza e, solo in tale logica, va interpretato, collocato e ricordato sull’onda dell’anniversario, senza dimenticarne però le alterne fortune.
Nel dopoguerra perfino il Partito Repubblicano Italiano è stato molto tiepido nel rivendicare l’eredità storica del mazzinianesimo, delegandone il culto all’Associazione Mazziniana. A sinistra l’imbarazzo non poteva che essere grande, laddove Mazzini era stato il primo a denunciare il comunismo come un sistema tirannico, in uno scritto del 1847 (“Pensieri sulla democrazia in Europa”). Da parte sua Karl Marx era arrivato a cestinare le “melensaggini” socialnazionaliste dei mazziniani, ben lontane dalle sue impostazioni classiste. In piena continuità con le bocciature di Marx, Palmiro Togliatti, segretario del Pci, nei primi Anni Trenta , scriveva che, se fosse stato vivo, Mazzini avrebbe “plaudito alla dottrina corporativa, né avrebbe ripudiato i discorsi di Mussolini sulla funzione dell’Italia nel mondo”, salvo poi , nel 1946, tentare di arruolarlo parlando di lui come “del nostro grande riformatore sociale”.
Sta di fatto che nell’Italia repubblicana il nome del patriota genovese non ha mai avuto grandi onori, a parte alcuni circoli culturali, trovando – non sembri un paradosso – maggiore attenzione “a destra”, da parte delle organizzazioni giovanili di area missina. Lo hanno evidenziato, in I ragazzi del ciclostile. La Giovane Italia, un movimento studentesco contro il sistema, Adalberto Baldoni e Alessandro Amorese (Eclettica, 2021) ricordando come a Genova, negli Anni Cinquanta, “la tomba di Giuseppe Mazzini è frequente meta del pellegrinaggio da parte di delegazioni di dirigenti e militanti della Giovane Italia. Non avrebbe potuto essere altrimenti, non fosse altro per rendere omaggio al fondatore dell’Associazione politica Giovine Italia sepolto nella capitale ligure, luogo natio del patriota risorgimentale”.
A ben guardare – ecco un’altra ragione di certi imbarazzati silenzi sulla figura del patriota genovese – nel messaggio mazziniano c’è, in nuce, Alfredo Oriani e la stagione interventista, c’è il sindacalismo nazionale e Sergio Panunzio, che vede nell’organizzazione sociale una nuova forma ed un nuovo istituto educatore degli uomini, e c’è anche una buona parte del fascismo e non solo quello etichettato “di sinistra”. C’è il fascismo delle origini, repubblicano e sansepolcrista, e quello della Repubblica Sociale, ma c’è anche il “fascismo Regime”, che, nel giugno 1927, con un’apposita legge, acquista, a Genova, “in via di espropriazione per causa di pubblica utilità”, l’intera Casa Mazzini, destinandola poi ad “uso Istituto” (con il museo, l’archivio e la biblioteca del Risorgimento tuttora attivi). Nel giugno 1934, Giovanni Gentile, in occasione dell’inaugurazione dell’Istituto Mazziniano, lo assimilava al fascismo, per la sua concezione spiritualistica, per la sua avversione all’individualismo, per la sua diffidenza verso il meccanicismo liberista. Berto Ricci, nel settembre 1931 (su “L’Universale”) ne aveva esaltato l’anima popolare: “Senza Giuseppe Mazzini l’unità sarebbe rimasta una fantasia di cervelli ambiziosi, un sognatore di filosofi contro la storia. Mazzini prima di tutti, più fortemente di tutti, volle che all’impresa avesse parte il popolo, pena il fallimento o la mala riuscita”.
Al di là delle appartenenze strettamente politiche, pur significative, in un’Italia dalla memoria corta, il 220mo anniversario della nascita di Mazzini può ancora essere un’occasione per riconoscere il valore del suo esistenzialismo etico, del suo “bruciarsi” ideale, che ne evidenziano l’inusualità, senza perciò fare venire meno il valore anticipatore delle sue analisi di fondo: padre dell’unità nazionale, certamente, profeta della repubblica, ma anche espressione di quella “ideologia italiana” entro la quale rappresenta un tentativo di inveramento spiritualistico del socialismo in chiave nazionale, per una progettualità al tempo stesso nazional popolare, religiosa, interclassista. E quindi politicamente e culturalmente “scorretta”.
Così scriveva Mazzini nell’incipit dei Doveri dell’uomo: “Io voglio parlarvi dei vostri doveri. Voglio parlarvi, come il core mi detta, delle cose più sante che noi conosciamo, di Dio, dell’Umanità, della Patria, della Famiglia”. A leggere, oggi, certi motti, alla luce di un conformismo culturale tuttora dominante, il rischio è evidentemente quello di impantanarsi nei concetti accusatori dell’intolleranza (religiosa), del fanatismo patriottico (l’idea di Nazione), dell’omofobia familista (il tradizionale richiamo al vincolo familiare), con il conseguente azzeramento dei principi fondanti la nostra identità nazionale e la messa in mora di chi storicamente a quei principi si era richiamato.
In più Mazzini sollecita una risposta spiritualistica della vita contro l’utilitarismo d’impronta capitalista, individuando nella “complessità sociale” la ricchezza della nazione e nell’appello ai “buoni di tutte le classi” il segno di una concezione eticamente interclassista e solidaristica.
Rispetto a chi vuole “semplificare” la Storia, i percorsi spirituali e culturali dei popoli, il richiamo alla “complessità sociale” e alla “ricchezza spirituale della nazione” è un invito che va ripreso, rilanciato e ben compreso, anche oggi.
Su “La Jeune Suisse”, nel 1835, Mazzini scriveva: “La questione già meramente politica, s’è fatta sociale”. Non è sufficiente – notava – lavorare per l’unità nazionale (vista non solo come unione materiale di uomini aventi in comune la lingua e le tradizioni, ma anche come “missione” provvidenziale) perché è anche nella (grazie alla) coscienza “associativa” che il superamento del principio individuale si concreta nel nuovo vincolo sociale.
Di grande rilevanza appare dunque il contributo mazziniano ad una teoria della coscienza sociale che, rifiutando le volgarizzazioni di stampo marxista (tese a strumentalizzare “gli uomini del lavoro” con “concetti d’odio e di vendetta, di sostituzione di una classe ad un’altra, di disegni relativi d’ogni progressiva convivenza civile”), viene fondandosi su una nozione etico-organica della società (“lavoreria”), nella quale essenziale è il diritto-dovere dell’associazione: “il diritto dell’associazione è sacro come la religione che è l’associazione delle anime”.
Il Mazzini “sociale” – è questo il valore attuale del suo “messaggio” – si presenta sempre più, anche a noi, inquieti cittadini del Terzo Millennio, non solo come uno degli artefici dell’unità nazionale, come il padre di un repubblicanesimo istituzionalmente realizzato, quanto piuttosto come l’inascoltato profeta di un nuovo ordine sociale e politico, capace di raccogliere “sotto una sola legge d’equilibrio tra la produzione e il consumo, senza distinzione di classi, senza predominio tirannico di uno degli elementi della produzione sull’altro, tutti figli della stessa madre la Patria”.
In questa prospettiva, fuori da ogni retorica e ben oltre la pura e semplice celebrazione patriottica, Mazzini appartiene a chi continua ad avere a cuore reali aspettative etiche di giustizia e di rinnovamento: problemi aperti, ieri come oggi, sulla via di un nuovo Risorgimento, in grado di affrontare unitariamente questione nazionale, problemi sociali e rifondazione dello Stato. Malgrado il tempo trascorso, da qui bisogna partire per dare il giusto riconoscimento ad uno dei Padri dell’Unità italiana e per declinarne nuovamente e correttamente il messaggio, nel segno dell’attualità. Senza amnesie e silenzi.