
Nigel ha ribaltato il tavolo
La rivincita di Farage: travolge Starmer e fa a pezzi il sistema politico britannico
Reform Uk sfonda nei collegi laburisti, conquista roccaforti conservatrici e si impone come prima vera alternativa all’establishment britannico. Il partito antisistema è tornato
La Gran Bretagna si sveglia con un messaggio chiaro stampato nelle urne: i partiti tradizionali non bastano più. Keir Starmer aveva provato a indossare i panni dell’uomo forte, flirtando con la retorica in salsa anglo-trumpiana. Ma l’elettorato non si è fatto incantare. A travolgere le fragili sicurezze del Labour party ci ha pensato lui, Nigel Farage, il disturbatore seriale della politica britannica, con la sua creatura, Reform Uk.
Il trionfo di Farage mette Starmer al tappeto
Il voto amministrativo, che ha coinvolto un terzo degli inglesi, si è trasformato in un gigantesco “vaffa” istituzionale. E chi lo ha incarnato, con la solita irriverenza e tempismo, è proprio Farage. La tempesta parte da Runcorn, dove la candidata Sarah Pochin ha soffiato un seggio ai laburisti con una manciata di voti — 6 per essere precisi—, ma con un peso simbolico colossale. Il suo primo commento? «Nigel Farage è ormai il prossimo primo ministro di questo grande Paese».
Crollo dei Tory, la Gran Bretagna vuole il cambiamento
A Lincolnshire, invece, è andata in scena una batosta per il centrodestra: per il partito di Kemi Badenoch, acclamata come prima donna nera alla guida dei Conservatori. Reform ha incassato il 42% dei consensi, riducendo i Tory al ruolo di comparse con un misero 26%. Non è un caso isolato: in più di un collegio, i partiti tradizionali conservano a fatica il vantaggio, tallonati da candidati che fino a ieri sembravano meteore e oggi sono minaccia reale. Insomma, il sistema scricchiola e Westminster trema. La maggioranza laburista, di rosso dipinta, conquistata lo scorso anno — con appena il 34% dei voti, grazie a un sistema uninominale spietato — sembra già infatti scolorita.
Dove nasce il voto di rottura
Ma non è l’ennesimo sussulto anti-migranti, come si sussurra nei salotti progressisti. L’elettorato britannico non è più disposto a farsi incasellare. Vota di pancia e di coscienza. Ha voluto colpire un establishment percepito come stanco, sordo, autoreferenziale. L’immigrazione conta, certo. Ma a far crescere la, già ribattezzata, “marea faragista” sono anche vent’anni di precarietà mascherata da ripresa, servizi pubblici in affanno, sicurezza fuori controllo, salari stagnanti e promesse buone solo per i manifesti elettorali.
Farage, nel suo stile da pugile di strada, ha intercettato tutto questo. Ha lavorato dietro le quinte per due anni, coltivando il suo ruolo da outsider e tessendo relazioni con i nazional-populisti di mezzo mondo. Ora, dal suo punto di vista, è tempo per lui di raccogliere i frutti.
La fine del bipolarismo britannico?
Dunque, la Gran Bretagna si scopre improvvisamente multipolare, frammentata, indecifrabile per gli analisti da talk show. Reform Uk si impone come soggetto in grado di scalzare lo status quo. A non cambiare è ancora il potere, nelle mani dello zoppicante Starmer, ma il passo è breve. Perché non si parla più solo di destra e sinistra, ma di chi sta dentro o fuori l’establishment.