
Un leone sul trono di Pietro
Contro gli Attila di ieri e di oggi. Leone: un nome, una garanzia di una Chiesa che non svende i valori e non cerca “like”
"La Chiesa non si muove secondo i dettami politici a cui siamo abituati, ha i propri", dicono le clarisse del convento di Labaro. E il nuovo Pontefice lo dimostra fin dal nome.
C’è chi, a corto di vocabolario ecclesiale, ha letto l’elezione di Leone XIV come una prosecuzione lineare del pontificato bergogliano. Errore. Basta osservare — senza partigianeria, ma con onestà intellettuale — la traiettoria e la statura del nuovo Papa per capire che la musica non sarà la stessa.
Il nome scelto Leone XIV è già un programma
Il nome scelto non è frutto del caso. Optare per Leone XIV — o Leo, come direbbero Oltreoceano — significa collocarsi in una linea dinastica che ha lasciato un’impronta indelebile nella storia della Chiesa. Non un esercizio di nostalgia, ma un richiamo potente all’autorità della Santa Sede. La designazione evoca innanzitutto Leone Magno, colui che fermò Attila, capo dei barbari, con la sola forza della parola. E poi, Leone XIII, autore della Rerum Novarum, l’enciclica del 1891 che pose le basi della Dottrina sociale cattolica. Due pontefici capaci di fondere teologia, spiritualità e peso politico senza mai smarrire l’asse della Verità.
In questo solco si inserisce anche il simbolismo stesso del leone: emblema di potere, regalità e coraggio. Nella tradizione cristiana è il simbolo di Gesù Cristo Re — il “leone della tribù di Giuda” dell’Apocalisse — e l’attributo iconografico dell’evangelista Marco, ma anche compagno di santi asceti, abitatori del deserto. Nel Fisiologo, bestiario cristiano tardoantico, il leone è associato alla Resurrezione. Nell’arte medievale lo si ritrova ai piedi dei gisants, le statue funerarie dei grandi, per incarnare la forza d’animo dei potenti. E nell’allegoria morale di Cesare Ripa rappresenta la fortitudo, virtù cardinale, ma anche l’etica e il governo di sé. E quando la forza si lascia guidare dall’Eloquenza o dalla Giustizia, è ancora il leone a simboleggiarla.
È perciò un messaggio preciso alla Curia e al mondo: la Chiesa non è domata. È viva, consapevole della sua storia, e pronta a riaffermare il proprio ruolo. Ecco perché Leo non sarà il Papa della continuità. Sarà un Papa di rottura. Il suo pontificato non seguirà lo stesso copione, né il compito che si dà sarà quello atteso. È stato nominato da Bergoglio, sì, ma la sua visione si annuncia profondamente diversa.
Il profilo di un Pontefice inatteso
Tuttavia, a sorprendere non è solo il nome. È il profilo: americano, missionario in Perù, agostiniano, esperto di diritto canonico, con solo due anni di cardinalato. Un’elezione-lampo, sì, ma tutt’altro che improvvisata. Un cambio di passo. Forse, una correzione di rotta.
Ogni Papa è chiamato a due missioni: estendere e unire. Francesco ha incarnato la prima, ma ha fallito nella seconda. È stato il Papa della globalizzazione, ma il suo spirito riformatore ha finito per lasciare una Chiesa più divisa. Leo, invece, si annuncia come il pontefice della ricomposizione, non dell’espansione fine a sé stessa. “È un religioso — nel senso pieno del termine, membro di una congregazione — ma anche un pastore”, ha spiegato al Secolo d’Italia una clarissa del convento di Labaro poco dopo la proclamazione. “Non governerà come un burocrate, né predicherà come un funzionario. È uno che ha fatto voto e ha vissuto tra gli ultimi”. Unisce la radicalità della vita consacrata alla responsabilità della guida, ed è questo a renderlo un Papa atipico.
“La Chiesa,” ha aggiunto la suora, “non si muove secondo i dettami politici a cui siamo abituati, ha i propri”. Una risposta — colta e pungente — a chi continua a leggere le cose di Dio con le lenti sbiadite del politicamente utile. Il Papa non è un parlamentare in tonaca. E Prevost, con la sua elezione, lo ha ricordato a tutti.
L’Occidente al centro della missione
Il suo sguardo è fisso sull’Occidente. “Servirà nel compito fondamentale di evangelizzare l’America sia del nord che del sud”, dove la chiesa mormone cercava di penetrare per guadagnare influenza, “nella quale da tempo le confessioni pentecostali si sono diffuse a discapito di quella cattolica”. Non l’Asia, non l’Oriente, ma le Americhe. Lì dove la Chiesa ha perso terreno. Lì dove la fede, più che la diplomazia, può ancora far breccia. “Un’America che forse più della Cina oggi ha bisogno di credere − ha ammesso la clarissa — Perché la religione è ancora di salvezza, soprattutto nei momenti più difficili e dolorosi della vita. Viviamo in un mondo in tormento e ora c’è davvero bisogno di credere per ridare speranza”.
Lingua del cuore, lingua della Chiesa
Il cuore resta in Perù. Ma la testa guarda a Roma. E non è un dettaglio che il primo discorso sia stato pronunciato in italiano, poi in spagnolo. Non c’è nessuna distrazione diplomatica, ma un segnale chiarissimo: la Chiesa universale torna a parlare la lingua di Pietro, e insieme quella dei popoli che attendono una nuova evangelizzazione.
Così, chi cercava lo smacco, lo scontro, il segnale contro questo o quel leader — “un messaggio per Trump!”, hanno commentato i soliti faziosi — è rimasto deluso. A rispondere, con l’umiltà disarmante dei contemplativi, sono state ancora le clarisse di Labaro: “No, non lo era, è semplicemente l’animo umano che l’ha portato a mandare un segnale alla sua comunità, quasi a dire: ′non vi dimenticherò′”.
Non un riformatore, ma un restauratore di senso
Sarà un Papa destinato a un pontificato dirompente, uno capace di rovesciare il tavolo per ricordare che la Chiesa universale non ha bisogno di protagonismi progressisti, ma di credenti saldi nella fede. Né Bergoglio II né l’anti-Bergoglio. Sarà se stesso. E per una Chiesa che ha smarrito l’identità, forse, è proprio ciò che serve: un pastore che non cerca l’applauso del mondo, ma la sua salvezza.