
Islamizzazione diffusa
Accogliere tutto, anche la barbarie: mutilazioni femminili taciute per non turbare la sinistra delle frontiere aperte
Secondo il rapporto dell'Eurispes, i numeri di questa pratica arcaica e brutale sono agghiaccianti: "230 milioni di bambine sono state sottoposte all'escissione. Si stima inoltre che altre 27 milioni potrebbero subire questa violenza entro il 2030". In Europa, le stime parlano di 600mila ragazze a rischio
Una pratica arcaica e brutale, che non conosce confini. Il Rapporto Italia 2025 dell’Eurispes, presentato oggi alla Biblioteca nazionale centrale di Roma, fotografa una realtà ignobile: l’Italia è tra i Paesi europei con il più alto numero di donne che hanno subito mutilazioni genitali. Non perché la barbarie sia “autoctona”, ma perché il Paese ospita da decenni una consistente presenza femminile migrante da aree — Nigeria, Egitto, Senegal, Etiopia — dove questa violenza rituale è pratica diffusa, accettata, imposta.
Una conseguenza dell’immigrazione incontrollata
Il dato crudo impone una riflessione seria sulle conseguenze culturali dell’immigrazione incontrollata. Riflessione che, ovviamente, non trova spazio nei salotti della sinistra open borders, dove fenomeni del genere vengono sistematicamente taciuti in nome di un multiculturalismo acritico. Eppure i numeri del rapporto parlano chiaro, e a fornirli è anche l’Unicef: «Si calcola che, nel mondo, 230 milioni di bambine, ragazze e donne abbiano subìo mutilazioni genitali e si stima che altri 27 milioni di bambine e ragazze potrebbero essere esposte a questa forma di violazione entro il 2030». La stessa agenzia Onu sottolinea come «nel Corno d’Africa siano ancora sottoposte a mgf – mutilazione dei genitali femminili- il 99% di bambine e donne tra i 15 e i 49 anni». Percentuali agghiaccianti.
L’Italia e le comunità a rischio
In Europa, le stime parlano di almeno 600mila ragazze a rischio. Di queste, una parte considerevole vive in Italia. Già nel 2019, una ricerca dell’Università Bicocca di Milano stimava in 87.600 le donne escisse nel nostro Paese, di cui ben 7.600 minori. In prevalenza, nigeriane ed egiziane. Nessuna coincidenza: si tratta di comunità dove la pressione culturale verso la “purezza” femminile si traduce in atti irreversibili. Secondo l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere, nel 2018 tra il 15% e il 24% delle donne migranti presenti sul territorio italico rischiavano l’escissione.
Una barbarie che non ha giustificazioni
L’Organizzazione mondiale della sanità definisce le mgf come «tutte le procedure che comportano l’asportazione parziale o totale dei genitali esterni femminili o altre lesioni dei genitali femminili praticate a scopi non terapeutici». Non c’è culto o fede che le giustifichi. Sono tradizioni radicate in logiche tribali che usano il corpo femminile come campo di addestramento per la sottomissione.
Le conseguenze sanitarie e il silenzio
Il Paese si trova ora a fronteggiare, all’interno dei propri confini, un fenomeno che mina alla base i diritti fondamentali. Se ne parla poco, spesso con pudore ideologico. La realtà però è brutale. Le conseguenze sanitarie sono gravi: emorragie, infezioni, problemi urinari, mestruali, sessuali, rischi durante il parto. Fino alla morte.
Una legge c’è, ma non basta
Qualche passo è stato fatto. In Italia una legge specifica esiste, ed è stata approvata nei primi anni 2000. Ma il testo normativo, da solo, non basta. Serve personale formato: medici, ostetriche, mediatori culturali, operatori dei centri di accoglienza. Serve sapere cosa cercare, come intervenire. Serve, soprattutto, il coraggio di affrontare il problema senza edulcorarlo con la retorica dell’integrazione a senso unico.
L’Eurispes lo sottolinea: è necessario «formare figure professionali sanitarie, assistenti sociali, mediatori culturali, a saper riconoscere i fattori fisici, ma anche psicologici, che possono condurre le donne migranti all’essere vittime di mutilazioni genitali». E agire «nei centri di accoglienza che ospitano immigrate provenienti da paesi in cui le mgf sono diffuse».