
Trent’anni di An. Quella stagione corsara e ribelle che seminò il campo di Fiuggi
Il giuramento del primo governo di centrodestra della storia repubblicana, quell’istantanea con Adriana Poli Bortone in tailleur giallo e il sorriso scamiciato di Pinuccio Tatarella fu l’immagine plastica della fine di un’epoca. Affiorava e si radicava la sensazione di una bottiglia finalmente stappata. “Noi ministri?”, ripetevano in tanti quel giorno di ottobre 1994 all’Hotel Ergife di Roma. Noi a Palazzo Chigi? Si sgretolava il marchio dell’impresentabilità, si poteva archiviare la stagione dell’isolamento, liberarsi da quel ruolo di eterni esclusi, reietti, così lungo da sembrare un destino ineludibile.
Si sgretola il marchio dell’impresentabilità
Più che l’euforia per l’ingresso nella stanza dei bottoni, che pure ci fu con gli inevitabili errori da sbornia elettorale, nei sentimenti di quei mesi che preparano Fiuggi prevale l’entusiasmo, l’ebbrezza, insieme all’incredulità, per l’uscita dalle sabbie di un deserto attraversato per decenni. Una liberazione, una conquista rincorsa per 40 anni di isolamento, demonizzazione, processi nelle aule di giustizia e sulla pubblica piazza mediatica, perfino richieste di scioglimento in applicazione della legge Scelba, morti innocenti sulle strade. Non più figli di un Dio minore, dirà Gianfranco Fini con una felice espressione. Qualcuno era più pronto per il grande salto e l’alleanza con gli “altri”, qualcuno meno: si temeva la fatidica perdita d’identità una volta usciti dalla fortezza, tema che segnò il dibattito interno di quei mesi. “Che succede? Entrano in casa democristiani e socialisti?”. “E perché no?”.
Fiuggi non fu una frettolosa operazione di maquillage
La nascita sofferta e decisiva di Alleanza nazionale non fu un’operazione di maquillage, una frettolosa riverniciatura del vecchio Msi a uso elettorale. E male fecero i media dell’epoca a indugiare sullo strappo dal passato fascista, a fermarsi alla narrazione di una Bolognina di destra, una mossa dettata da opportunismo e tatticismo politico. Si andò a Fiuggi, tra le lacrime certo, ma con la voglia di suggellare un passaggio storico. Un po’ ubriacati dai riflettori della stampa nazionale e non solo, che fino ad allora aveva riservato alla destra spazi da riserva indiana. Per tanti fu il suggello di un nuovo corso coerente con la mutazione antropologica già in atto da tempo, che aveva infastidito una parte della anchilosata nomenclatura missina.
Il terreno seminato dal FdG degli anni ’80-’90
Il terreno era pronto, seminato a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 dall’avanguardia giovanile negli atenei, nelle scuole, sui territori. E ancora indietro dalle lungimiranti riflessioni di Beppe Niccolai, anima socialista del partito, dal dibattito interno, talvolta aspro sui temi forti, tra l’ala almirantiana, conservatrice, e quella rautiana dello sfondamento a sinistra. Dalla visione di un’area vasta oltre i confini delle ideologie costruita da Pinuccio Tatarella con l’idea del Movimento degli italiani. Dalla solida cultura politica dei suoi massimi dirigenti dal passato militante come Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa e Altero Matteoli. Dai laboratori politici e culturali della Nouvelle droite di Alain de Benoist e Marco Tarchi. Uscire dagli stereotipi del fascismo, abbandonare le vesti della mera testimonianza, sporcarsi le mani nella società senza complessi di inferiorità. E mettere alla prova dei fatti l’identità, da inverare nel presente, non più da omaggiare come un reperto museale: questi i capisaldi della rivoluzione dolce dei pionieri under trenta.
Il duello Fini-Rutelli e la nuova Fiamma
Prima di An il duello a Roma tra Fini e Rutelli per la conquista del Campidoglio, uno spartiacque da manuale di storia con il segretario dei post-fascisti missini al ballottaggio, dicembre 1993, e il risultato clamoroso del Msi che superò il 30%, un exploit inimmaginabile. Fu il nuovo inizio. Lo stesso vento spirava anche a Napoli, dove Alessandra Mussolini, con quel cognome ingombrante, bissò il risultato della Capitale e andò al ballottaggio. Nel centrosud molti esponenti storici del Msi vennero eletti sindaci (Pasquale Viespoli a Benevento, Adriana Poli Bortone a Lecce, Paolo Agostinacchio a Foggia, Silvano Moffa a Colleferro, Ajmone Finestra a Latina). L’elezione diretta del sindaco terremotò equilibri decennali. Un sistema di potere che sembrava inscalfibile crollò nel giro di pochi mesi, la storia si rimetteva in moto e tutto sembrava possibile sulle ceneri della Prima Repubblica, con l’implosione del partito-stato democristiano sotto i colpi di Mani Pulite. L’endorsement di Berlusconi, di grande impatto comunicativo, non basta per capire i mutamenti profondi che si leggono tra le pieghe di apparenti coincidenze. Sui muri di Roma comparve una fiamma irriverente che faceva la linguaccia, accattivante e provocatoria, smaniosa di uscire dal nostalgismo e dal muro di incomunicabilità di troppi anni. Al diavolo i contorcimenti degli avversari sulla base trapezoidale e la “tomba del duce” presunta.
I primi vagiti di un’alleanza tra missini, cattolici, liberali, repubblicani
Quella fiamma riuscì a catturare buona parte del voto moderato in libera uscita. Nei seggi elettorali le schede missine venivano conteggiate a mucchietti da dieci, mai successo prima, con gli scrutatori spiazzati. La lista civica a sostegno di Fini fu il primo laboratorio di contatti con l’ala di destra degli ex dc, Rocco Buttiglione, Gustavo Selva e Publio Fiori che poi confluirono in Alleanza nazionale. Il sasso nello stagno lanciato dall’ormai fatidico articolo di Domenico Fisichella del 1992 sul Tempo, venne raccolto. Era l’ipotesi di un’alleanza tra missini cattolici, liberali, repubblicani, conservatori. Ma non era ancora chiaro, come successe, che il Msi si sarebbe messo al timone di quella alleanza.
La nostalgia del futuro e il battesimo di una nuova destra
Occhi lucidi in sala davanti all’impegno a “lasciare la casa del padre per non farvi più ritorno”, ma il congresso di Fiuggi non segnò il funerale del Msi, fu il battesimo di una nuova destra capace di aprirsi senza rinnegare origini e valori di riferimento, qualcuno la chiamò “nostalgia del futuro”, un’operazione che non riuscì sul fronte opposto e di cui il centrosinistra di oggi ancora paga lo scotto. Una destra, parte attiva della storia repubblicana, che guarda al futuro e, forte del consenso elettorale, si candida a rappresentare pezzi crescenti di società nel nome della libertà e della patria, parola quasi impronunciabile nella Prima Repubblica. Ma anche il terminale di una lunga seminagione accelerata dal Fronte della Gioventù a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 in tempi non sospetti. La nascita di An, le sconfinate praterie da conquistare dopo il crollo del pentapartito sembravano usciti da certi documenti visionari della comunità giovanile guidata da Gianni Alemanno, Fabio Rampelli e Andrea Augello. Teorie e provocazioni che da Roma, Milano, Verona, Catania, Siracusa, anni prima di Fiuggi, premevano per uscire dalle pratiche e dall’ortodossia di un partito testimonianza, troppo stretto per sognare in grande. Piccole e grandi eresie contenute nell’analisi sulla cosiddetta “logica del superamento”, dibattute in interminabili riunioni notturne o nei campi-scuola in montagna.
La logica del superamento e la fine del neofascismo
Ben prima della svolta dei big di partito, i giovani si interrogavano e promuovevano il superamento del derby destra-sinistra, “categorie ottocentesche” ripetevano i militanti più illuminati, l’abbandono delle posture nostalgiche, l’affondo sui temi di attualità, dall’ambiente al sociale, possibili alleanze con il mondo cattolico negli atenei, il superamento dell’attivismo classico, colla e manifesti, per un impegno a tutto tondo, comunitarismo e volontariato. Erano gli anni del ritorno alla Sapienza dopo la cacciata del ‘68, dell’occupazione Carpe diem alla Facoltà di Scienze politiche, della lista di Azione Universitaria con Comunione e Liberazione, dei sit-in antinucleare, delle Comunità giovanili in giro per l’Italia, sull’onda del capolavoro di Busto Arsizio, di Fare Verde. Erano gli anni dei primi vagiti di un inedito associazionismo territoriale sganciato dalle sigle di partito, dei centri ricreativi estivi rivolti alle famiglie, delle feste popolari nei Rioni. Erano gli anni del pesce d’Aprile davanti a Montecitorio, ‘assalto’ goliardico al Parlamento di inquisiti, “armati” di magliette con scritto “Arrendetevi siete circondati” (foto).
La provocazione editoriale di Morbillo, prurito e avventura
E ancora prima, correva l’anno 1988, le pubblicazioni di Morbillo prurito e avventura: un tabloid a macchie rosse (per diffondere il contagio), 3000 lire in edicola, tono insolente, linguaggio underground, politica, costume e tanta satira. Sulle orme della Voce della Fogna voleva rompere con il linguaggio severo della nomenclatura del Msi, con i teoremi della doppia pena di morte e certi tic impresentabili del pianeta post-fascista. Diretto da un “inconsapevole” Adolfo Urso (“non avevamo tra noi nessun pubblicista…”, raccontano), il mensile con le sue provocazioni culturali, l’ingresso di Che Guevara accanto a Nietzsche (perché “tutti gli uomini di valore sono fratelli”), Pasolini corsaro, gli affondi ambientalisti, le tirate d’orecchio a Pinochet, riuscì persino a ingannare i compagni del manifesto che ne pubblicizzarono il primo numero certi che fosse “roba loro”. Altro che orbace e olio di ricino da nascondere. Alleanza nazionale approfitta di una crisi di sistema e si getta nella mischia ma viene da molto molto lontano.