Macroniadi “woke” adieu? Il peggio arriverà a Los Angeles. Sapremo, anche qui, da che parte stare
È calato il sipario sulle Olimpiadi di Parigi. Un’edizione splendida per lo sport italiano, che eguaglia il record di 40 medaglie raggiunto a Tokyo tre anni fa (ma con due ori in più). Un bottino che con un pizzico di fortuna in più e qualche torto arbitrale in meno avrebbe potuto essere anche più lauto. Ma ogni Olimpiade che si rispetti non è soltanto un grande spettacolo sportivo è anche uno specchio dei tempi e della società in cui viviamo, delle sue contraddizioni e delle fratture culturali che la attraversano. Dovevano essere i Giochi della rinascita per Emmanuel Macron, uno sfoggio di efficienza e di grandeur in mondovisione, per recuperare almeno in parte il prestigio sfregiato dal popolo sovrano nelle recenti competizioni elettorali.
Obiettivo fallito, a partire dalla cerimonia di apertura. La scelta ambiziosa di uno spettacolo per una volta fuori dal tradizionale stadio olimpico, nella cartolina naturale della ville lumiere, è ben presto naufragata nella palude dell’ideologia arcobaleno, che ha fatto da ossessivo filo conduttore della cerimonia. E così, mentre gli atleti venivano costretti a sfilare sui battelli sotto una fitta pioggia (sorte toccata poco dopo ai leader internazionali costretti ad ascoltare Macron coperti soltanto da improbabili poncho), in video andava in onda la celebrazione del “transgenderismo” come evoluzione suprema dei valori universali della République, fino all’oltraggio blasfemo de “L’ultima cena”. A poco sono valse spiegazioni, giustificazioni e scuse: un diffuso senso di indignazione aveva ormai travolto irrimediabilmente l’oscena baracconata.
E non è andata meglio sul piano organizzativo. 1,4 miliardi di euro (!) di tasse dei cittadini francesi spesi per costringere i nuotatori a immergersi nelle acque impetuose e nauseabonde della Senna, tra cancellazioni, conati di vomito e inevitabili ritiri. Non da meno l’accoglienza “green” del Villaggio Olimpico, con letti di cartone e zero aria condizionata, il cibo scarso e di pessima qualità e da ultimo pure i vermi nei piatti. Pare che persino le medaglie vinte con tanto sacrificio dagli atleti vadano in decomposizione dopo pochi giorni. Insomma, erano talmente impegnati a realizzare l’Olimpiade “sostenibile e inclusiva” che ne hanno dimenticato i veri protagonisti: lo sport e gli atleti, che in quei giorni hanno bisogni perfino elementari: non ammalarsi, dormire e mangiare bene, allenarsi e gareggiare in contesti normali. E così da celebrazione della rinascita macroniana in mondovisione, i Giochi si sono trasformati nella perfetta metafora di un leader al tramonto.
Ma certamente ciò che più ha agitato le coscienze e diviso l’opinione pubblica è stata l’irruzione della “questione gender”. Alla fine, come prevedibile e forse inevitabile, Imane Khelif e Lin Yu-Ting hanno vinto i loro ori. Forte del risultato, il tribunale planetario del pensiero unico è ora impegnato nella repressione di chiunque abbia osato sostenere che atlete nate con cromosomi maschili XY non dovrebbero competere nelle gare femminili. Osservazione persino banale, applicata in ben sei discipline a questi Giochi, ma incredibilmente disconosciuta nel pugilato olimpico. Questo, intendiamoci, non ha nulla a che vedere con la libertà di queste atlete di “sentirsi donne” nella loro vita quotidiana; ha a che fare invece con i principi più elementari di lealtà sportiva e con la difesa del sacrosanto diritto di chi nasce biologicamente donna di poter competere ad armi pari con le altre atlete.
Fa tristezza sentire il presidente del CIO Thomas Bach balbettare che «al momento non esistono metodi scientifici per distinguere un atleta uomo da un’atleta donna». Un’affermazione surreale, che però ci riporta – non a caso – a quei barconi di cattivo gusto della cerimonia inaugurale. E ci proietta direttamente ai Giochi di Los Angeles 2028, in quella California capitale del wokismo mondiale, in quegli Stati Uniti che il 5 novembre decideranno se provare a fermare questa deriva o cavalcarla sempre più. Da qui ad allora e ancora oltre, nello sport come in tutti gli altri ambiti, l’ideologia tenterà di forzare il senso di realtà e l’ordine naturale delle cose. E in questa eterna lotta noi sappiamo da che parte stare.
*Capodelegazione di FdI al Parlamento europeo