Le cattedrali bruciano? Ricostruirne lo spirito. Contro l’iconoclastia: anche quella spinta dal “caso”
A Nantes la Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, la Notre Dame dedicata alla Madonna, come oggi quella di Rouen: le cattedrali gotiche francesi continuano a bruciare, dal 2019 in poi, con un impatto simbolico enorme. I simboli della Cristianità, le opere d’arte costruite per durare in eterno e collegare idealmente gli uomini con il cielo, si sono scoperti vulnerabili alle fiamme, dolorose e violente come quelle dell’inferno biblico. Una vulnerabilità insita nella loro natura, certo, ma non per questo meno impattante sull’opinione pubblica, soprattutto in un’era di secolarizzazione come quella che stiamo vivendo. Incendi non dolosi in alcuni di questi casi, ad eccezione di Nantes, almeno secondo le risultanze delle indagini; ma pur sempre una stranezza e una incredibile coincidenza, per la frequenza con la quale sono avvenuti e per la medesima collocazione geografica.
La Francia multiculturale e a forte trazione islamica, nelle periferie delle grandi Città, come in moltissimi piccoli centri in ogni parte del territorio, sembra dover fare i conti con la propria storia. I dati raccontano di una Nazione culla dell’anticristianesimo in Europa, con migliaia di attacchi a luoghi di culto, favorita dallo svuotamento delle Chiese e dalla crisi profonda della religione monoteista decisiva nella storia del Vecchio Continente. Una furia iconoclasta spinta dal “caso”, o dal dolo, utile a scoperchiare il nervo scoperto di una società globale che, in alcuni settori, pretende di rimuovere le radici, cancellare il passato scomodo, coprire di vernice le opere d’arte, abbattere le statue.
É la soluzione finale della “civiltà” occidentale come l’abbiamo conosciuta, con le sue stratificazioni fondative, le eredità greca e romana, fatte di cultura, pietre, cattedrali e opere dell’ingegno; una civiltà segnata e costruita anche sul susseguirsi di guerre, dominazioni e influenze religiose, ad aggiungere ogni volta un pezzo alla catena del Dna delle nostre piazze e delle nostre Città, a forgiare popoli. La chiamano “cancel culture”, quasi con una punta di soddisfazione, ma gli stessi fautori ignorano si tratti di nulla di più che di una eutanasia di un corpo potenzialmente ancora sano. Un omicidio commesso due volte: si uccide il passato e si cancellano le conseguenze di quel passato; noi stessi, insomma. Le statue di Colombo fatte crollare negli Stati Uniti, come quelle dei personaggi ritenuti scomodi, fanno spesso il paio con la stupidità dolosa dei giovani contestatori per il clima, convinti che “sporcare” le opere d’arte possa servire ad alzare l’attenzione sui problemi del pianeta. Eppure dovrebbero sapere che quel pianeta non esisterebbe, come lo conosciamo, senza i Van Gogh, senza i Caravaggio, senza i musei, senza le cattedrali, senza il potere salvifico e simbolico dell’arte, senza la forza rivoluzionaria, quella sì, della cultura.
Le cattedrali, quindi. Pensare che possano bruciare e lasciare l’Europa, in questo caso la Francia, senza il collante identitario fra le generazioni che esse rappresentano, significa però non conoscere la storia. Le pietre, quelle pietre, sono state concepite per durare nei secoli e ricordare a ciascuno di noi la nostra caducità, prima ancora che celebrare Dio e la Chiesa. Gli incendi, il fuoco, servono a ricordarci che è utile non abbassare la guardia e occorre ricostruirle queste cattedrali, anche presto. Ai teorici dei minestroni globali e della cancellazione delle identità, rispondono i fedeli e i cittadini comuni, persino non cristiani: quelli che con Notre Dame in fiamme piangevano e seguivano ogni passo delle operazioni di spegnimento, di giorno e di notte, assiepati dietro le transenne. Gli stessi che hanno messo mano al portafogli per ricostruirla, quasi si rendessero conto che quel pezzetto di Francia non sarebbe stata più la stessa senza i tramonti ad accarezzare di rosso le guglie della Nostra Signora.
Alla fine, anche di fronte alle distruzioni più grandi, a restare in piedi sono i simboli, i miti, le grandi storie, mentre fra pochi mesi nessuno si ricorderà di qualche ragazzo brufoloso che lancia vernice sui quadri o vandalizza statue.
Aveva ragione il cattolicissimo Tolkien, quando in un momento di grande tensione e tutto sembrava perduto, nel suo capolavoro “Il Signore degli Anelli”, fa pronunciare a uno dei personaggi, Samvise Gamgee, una delle frasi più citate in assoluto: «Ma alla fine è solo una cosa passeggera, quest’ombra, anche l’oscurità deve passare, arriverà un nuovo giorno, e quando il sole splenderà, sarà ancora più luminoso».