Schlein suona la chitarra per Conte pensando a Berlinguer. I padri politici (tutti) non si cancellano
Giuseppe Conte va giù duro: quelli del Pd sono pacifisti della domenica. Ce l’ha con Elly Schlein, che cerca di contendere ai Cinquestelle l’aureola dei messaggeri di pace candidando Marco Tarquinio. Su quel terreno, è lotta all’ultimo voto. Sgomitano anche Avs e Santoro, per non dire della lista di Rizzo. La leader dem però guarda al dopo. A lei basta non scendere sotto il 20%. Si tratta – ha scritto Il Sole 24 ore – “di una sorta di asticella di sopravvivenza”. Un risultato che migliorerebbe il 19% delle politiche ma senza dimenticare che nel 2019, con Zingaretti, il Pd alle europee prese il 22,7%. Fondamentale sarà poi tenere a distanza di percentuale il M5S. Insomma Schlein ha bisogno di superare di tanto il partito di Conte per galleggiare ancora alla testa di un Pd dove i malumori sono pronti a esplodere ma già offre una mano tesa per il dopo. E rilancia il campo largo.
Esperimento cui resta molto affezionato Pierluigi Bersani, che la considera l’unica strada per “battere le destre”. E la leader dem la prospetta come meta da raggiungere dopo il voto europeo. Ci scherza su: “Anche io come Conte suono la chitarra”, afferma. Motivo di più per unirsi. Ma il suo interlocutore purtroppo per lei fa finta di nulla e ribadisce quello che da mesi ascoltiamo: vediamo prima i programmi. E si toglie pure qualche sassolino: sul salario minimo – afferma vantando la primogenitura della proposta – il Pd è arrivato tardi.
Il più comico è in ogni caso Nicola Fratoianni. Il senso del voto europeo per lui è racchiuso tutto nel simbolo di Ilaria Salis. Eleggere lei significa abbattere l’Europa di Orban. Sì, ha detto proprio così. Rilanciando ovviamente il vessillo dell’antifascismo. Nobilitato da Antonio Scurati con una lunga articolessa su Repubblica in cui ci spiega che l’antifascismo non è anti qualcosa (quel fascismo che peraltro è morto 80 anni fa, aggiungiamo noi) ma è a favore della democrazia, della ragione, della pace, della non violenza, del Parlamento contro l’uomo forte. E del progresso, ovvio. Insomma è oro, incenso e mirra. Un dono divino. Il primo passo verso la laica santità.
Sull’onda della nostalgia si muove anche Elly Schlein nel chiudere la campagna elettorale a Padova nel segno di Enrico Berlinguer. Giorgia Meloni invece sarà a Verona per celebrare la lirica italiana che diviene patrimonio Unesco. Domanda: ma perché mai a Schlein è concesso di rimembrare un capo comunista mentre a Meloni non è permesso neanche lontanamente alludere a Giorgio Almirante? Si dirà: il primo era antifascista, il secondo no. Già, ma il Pci predicava un pacifismo filosovietico da cui Berlinguer non si discostò fino al 1976 e prendeva quell’oro da Mosca che secondo lo storico Valerio Riva continuò a giungere nelle casse comuniste italiane fino al 1990. Berlinguer fece però lo strappo: era il 1981 quando dichiarò che la rivoluzione d’ottobre aveva esaurito la sua spinta propulsiva. Anche Giorgio Almirante e prima di lui Michelini fecero importanti strappi rispetto al loro passato, convogliando il reducismo fascista all’interno della dialettica democratica. Almirante e Berlinguer – ebbe a dire Gianfranco Fini da presidente della Camera ricordando il leader missino -vollero la pacificazione in un Novecento segnato da orrori e violenze.
Non a caso oggi Aldo Cazzullo rispondendo a un lettore sul Corriere sull’atlantismo di Giorgia Meloni rileva che quell’eredità le arriva direttamente da Almirante. E da Almirante, inoltre, deriva l’idea dell’eurodestra (un gruppo unico per i partiti di medesima ispirazione antiprogressista) così come quella di Europa-nazione, cioè di una Unione europea fiera delle sue radici e non solo protesa alle direttive commerciali. Così come, potremmo dire, le ondivaghe posizioni del Pd in politica estera derivano direttamente dall’eredità berlingueriana. Impossibile cancellare i padri. A volte persino imperdonabile.