Putin col cappello in mano da Kim Yong-un. Il dittatore ha bisogno di armi e cerca una exit strategy
La visita a Pyongyang di Vladimir Putin, pluriricercato dalla Corte penale internazionale per i crimini di guerra di sequestro e deportazione di decine di migliaia di minori e infanti ucraini, dimostra tutta la sua debolezza. All’indomani dei vertici di Borgo Egnazia e Lucerna, è disperato l’aggressore dell’Ucraina. Sta perdendo terreno proprio sul campo di guerra di cui tanto si vanta e non sa come recuperare. Perché è a corto di armi. Dopo il ripetuto rifiuto di Pechino – in queste ore nell’occhio della diplomazia americana, tanto da aver sentito la necessità di smentire, apertis verbis, qualsiasi appoggio militare ai russi – e la perdita dell’appoggio di Teheran, l’aggressore russo appare in pubblico, ridicolamente prono al dittatore nordcoreano Kim Jong-un.
È volato lì, subito dopo i risultati del G7+1 guidato magistralmente dal nostro Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il Primo Summit Globale di Pace in Svizzera, solo per ricevere nuovi armamenti. Perché al di là dei proclami, il responsabile della guerra in Ucraina avverte la preoccupazione di non sapere più come uscirne. E per questo rilancia, puerilmente, condizioni per siglare la pace inaccettabili anche per Xi Jinping che infatti non le ha neanche commentate.
È il leader cinese ormai il vero interlocutore di quel mondo che ruota da quindici anni intorno alla BRICS e al quale l’Occidente si deve rivolgere per arrivare entro l’anno alla fine delle ostilità. Se è vero, come è vero, che i 22 paesi che lo scorso 22-24 agosto 2023 a Johannesburg hanno chiesto l’adesione a questa Organizzazione lo hanno fatto per i soldi di Pechino e non certo per le casse vuote di Mosca, in piena recessione e default finanziario.
E il nostro Occidente? Il premier Meloni lo ha detto, tondo e chiaro, a Lucerna: non si indietreggia di un millimetro fino a quando l’aggressore non si arrende. Intanto, il fatto che i russi abbiano spostato verso l’Ucraina le truppe di terra dal confine con la Finlandia, neo-paese aderente alla NATO, dimostra che prima il presidente Zelensky sarà ammesso a negoziare per entrare nella NATO, prima Putin percepirà che il vento è cambiato e sarà costretto ad indietreggiare.
Perché bisogna interrogarsi a questo punto se dopo due anni e mezzo di guerra e oltre cinquecentocinquantamila morti russi sul campo, non sia arrivato il momento di prendere atto che la situazione è tale da richiedere una exit strategy straordinaria che consenta all’Ucraina di aprire i negoziati con la NATO in corso di conflitto. Questo servirebbe a dare un segnale anche ai paesi che condividono i valori di libertà, democrazia e eguaglianza tanto faticosamente conquistati dopo la Seconda Guerra mondiale e che si sentono oggi minacciati dal fronte imperialista guidato dalla Cina. Dove Putin è lo junior partner, costretto a presentarsi con il cappello in mano a Pyongyang per questuare nuovi lasciti militari.
*Università Lumsa