La sinistra scomunica il beniamino Bergoglio: cestinata la “rivoluzione” della Chiesa arcobaleno

2 Giu 2024 8:20 - di Fernando Massimo Adonia

È bastata un’uscita decisamente da osteria per diradare la coltre magica che vedeva in Papa Francesco il «leader della sinistra» mondiale. Erano Stefano Fassina e Massimo D’Alema a parlare così e non si sa se oggi lo rifarebbero volentieri. Non dopo l’incidente sull’aria di «frociaggine» all’interno della Chiesa italiana. Fino a qualche anno fa, però, l’imprimatur del lider maximo della fu Botteghe Oscure aveva dato legittimità all’operazione in chiave liberal che voleva annoverare il Santo Padre tra gli alfieri del progressismo globale. Un’impresa dal fiato corto che il pontefice, però, è parso anche inconsapevolmente assecondare con il controverso e accidentato dialogo con lo storico direttore di Repubblica, Eugenio Scalfari, e le interviste concesse a Fabio Fazio. Scelte strategiche che, in parte, hanno scavato un solco con gli intellettuali conservatori non soltanto italiani.

È stata quindi la dizione romanesca del pontefice e l’aver lambito un tema tabù, quello appunto dell’orientamento sessuale, a gettare nello sconforto quanti avevano scommesso nella «rivoluzione» targata Bergoglio. Un’agenda – a sua insaputa – di riforma del cattolicesimo fatta di matrimoni gay, preti sposati, donne in clergy, gretinismo e immigrazione sine glossa. Una Chiesa, insomma, sempre meno magistra e protagonista della vita pubblica. Ebbene: per lo sconfortato Vito Mancuso, teologo progressista campione di vendite, siamo all’epilogo di una stagione mai avviata. Insomma, per il giornalismo italiano è stata una settimana da psicodramma. Massimo Gramellini è ancora incredulo, Massimiliano Panarari pure. Troppi imbarazzi e altrettante ipocrisie hanno preso il sopravvento: tant’è che alcune ricostruzioni hanno fatto registrare eccessi di contorsionismo.

Con chi ce l’aveva il Papa? Repubblica ha puntato addirittura il dito sui giovani preti tradizionalisti e la loro presunta passione per «tonache e cappelli o camice e rocchetti di pizzo». I conti però non tornano e c’è chi, come Antonio Socci, intercetta le divergenze ormai insanabili – anche in merito le riforme costituzionali proposte dal governo Meloni – tra Bergoglio e la Cei, nonostante alla guida ci sia un uomo di fiducia come il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna proveniente dalla Comunità di Sant’Egidio. Il cortocircuito è grande e la presunta «omofobia» del pontefice, stavolta, è difficilmente addomesticabile. Non sembra più il tempo di abbassargli il volume o di limare ad arte il suo messaggio. O forse c’è chi non lo vuole più fare, viste le fughe di notizie che hanno portato allo scoop di Dagospia.  In effetti, tra «chi sono io per giudicare un omosessuale» e «chi sono io per giudicare un omosessuale in cerca di Dio» lo scarto è notevole. Due titoli con impatti decisamente differenti.

Ci sarebbe un Bergoglio da selezionare e rilanciare secondo uno schema ben preciso che faccia passare in secondo piano i punti meno graditi della sua predicazione, insomma. Spesso è andata così. Sull’aborto il papa è andato ben oltre le parole di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI parlando chiaramente di «omicidio». L’eco però è stata scarsa. Nell’enciclica ecologica Laudato si’ ha espresso una radicale e contestuale condanna al gender, ma in pochi ne hanno preso nota. Stesso destino per l’amor di patria, tema ricorrente della sua predicazione. Durante la visita in Ungheria, nel 2021, Bergoglio si era addirittura complimentato con Viktor Orban per le politiche ambientali e a favore della famiglia. Il risultato? Una notizia al silenziatore.

Insomma, ogni qual volta che il pontefice è andato oltre o contro gli argomenti che piacciano a una determinata intellighenzia il suo messaggio è stato messo in sordina o rimodulato. Stavolta, però, la questione è difficile da contenere. Perché il papa è andato a toccare un nervo scoperto che negli ultimi decenni i vescovi italiani, probabilmente, non sono stati in grado di gestire adeguatamente: la formazione e la credibilità del clero.

Chi ha letto Il diario di un parroco di campagna di George Bernanos, oppure la saga di Don Camillo e Peppone di Giovannino Guareschi o, ancora, le indagini di padre Brown partorite dalla penna di Gilbert Keith Chesterton sa che tra sacerdozio e omosessualità (soprattutto se attiva) c’è uno iato profondo. E se la letteratura può destare perplessità, è la realtà a confermare il resto. E non c’è spazio per l’ossessione circa la sessualità e l’orientamento di genere che ultimamente ha contagiato anche i teologi. Le testimonianze di padre Pino Puglisi o di don Tonino Bello confermano che la paternità spirituale è ben altra cosa. Ed è questo l’ingrediente che i fedeli cercano nei loro pastori. Autorevolezza e misericordia. Ma gli intellettuali di sinistra fanno finta di non ricordarlo. 

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