Guerra & caos, l’era del conflitto postmoderno. L’avversario? Esiste solo il nemico assoluto
Il “diritto al diritto” è la preda che il vincitore si assicura, recita un adagio attribuito a von Clausewitz. Gli sviluppi della politica internazionale, dall’invasione dell’Ucraina ad opera della Russia fino al brutale attacco terroristico sferrato da Hamas contro i civili israeliani e la conseguente risposta militare di Israele, con sullo sfondo l’impotenza ondivaga e sovente del tutto strumentale e biased dell’ONU, dimostrano quanto esso sia esatto. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, le relazioni internazionali e il diritto internazionale umanitario si sono basati sull’equivoco di una generalizzata accettazione della autolimitazione della sovranità da parte degli Stati. Un self-restraint razional-kantiano delle ambizioni espansionistiche semplicemente, invece, mascherate da guerre a bassa intensità.
Ora latente, ora più esplosivo, il conflitto si è regionalizzato, si è sublimato attraverso specchi di quella che un grande studioso delle relazioni internazionali come Hedley Bull definiva «la società anarchica»: una società di nazioni punteggiata ormai di attori privati che spesso travalicano il potere statale e che in certi casi vengono utilizzati per le operazioni più discutibili in termini reputazionali, si pensi alla russa Wagner, e in cui, ragnatela dispersa in uno spazio privo di centro, non si riesce a comprendere chi davvero abbia il potere di far rispettare le decisioni. Decisori di ultima istanza, schmittianamente, continuano ad essere quei soggetti, statali o privati, i quali quando messi davanti la necessità suprema della autoconservazione rifluiscono inevitabilmente nell’esercizio massivo della forza.
Caso di scuola, la recente crisi mediorientale, nel cui ventre agisce una organizzazione non-statale, Hamas, che utilizza la prassi terroristica e che opera situandosi fuori da qualunque canone di accettazione della impalcatura valoriale dei consessi internazionali. Hamas utilizza i propri civili, fatti languire in una città-organismo tentacolare come Gaza, replicando questo meccanismo ora anche a Rafah, al pari di scudi umani, non rispetta convenzioni di diritto bellico, assalta i civili disarmati, uccide, stupra, taglieggia, utilizza i fondi internazionali per praticare terrorismo e per trasformare la stessa Gaza in una sorta di roccaforte sotterranea, non curandosi in alcun modo del benessere dei civili palestinesi.
Uno Stato, o un attore privato, che decida di approcciarsi al conflitto contro una simile realtà rispettando le linee direttrici della guerra convenzionale, e del portato assiologico dei diritti umani, sarebbe fisiologicamente perdente. È mera questione di campo di azione del conflitto e di intensità della forza utilizzata. Carl Schmitt, in Teoria del partigiano, cita il Napoleone alle prese con la brutale guerriglia anti-partigiana in Spagna, quella che sarebbe poi stata affrescata nelle affascinanti, violentissime e inquietanti opere raccolte ne “I disastri della guerra” di Goya. «Dove ci sono partigiani», afferma l’Imperatore francese «si combatte alla partigiana».
Una lezione francamente oscena e brutale, quando tradotta dalla teoria alla prassi empirica. La guerra del terrorista e del partigiano è guerra della inimicizia assoluta, non conosce schemi di rispetto di principi e diritti, ed è solo funzionale all’annientamento. Ne consegue che i dispositivi di contrasto ne devono eguagliare, e anzi superare per efferata spietatezza, la intrinseca violenza. Ciò non significa giustificare la rappresaglia, la punizione collettiva, l’assedio, l’eccidio, ma prendere atto di come e quanto l’utilizzo di civili come scudi umani, degli ospedali come basi per esplosivi e armamenti, dei mezzi di soccorso medico per trasportare guerriglieri non possa che portare a una reazione che si situa ad una latitudine problematica rispetto il fulcro delle convenzioni e soprattutto a una inversione assoluta della responsabilità.
In questo spazio assoluto di inimicizia non esiste più la necessità di giustificazione razionale o giuridica perché è solo l’efficacia a determinare e costituire il metaforico pendolo della giustezza o della ingiustizia. Giusto è solo ciò che risulta efficace nel raggiungimento del suo obiettivo. E lo sanno bene gli stessi leader di Hamas che nelle loro dichiarazioni hanno più volte richiamato la necessità che sangue palestinese sia versato. La morte di civili usati come scudi umani è una precisa scelta di campo per rendere ancora più polarizzato il conflitto e soprattutto agitare le inquiete opinioni pubbliche mondiali, già attraversate dalle scosse elettriche di una sorta di globalizzazione della intifada, dietro la quale sembrano esserci attori statali ostili all’occidente e non solo un moto spontaneo “umanitario”.
La stessa Russia, che a differenza di Hamas è un attore statale e come tale siede nei principali consessi sovra-nazionali e sarebbe quindi tenuta al rispetto di basilari principi umanitari, sta adottando una politica bellica prettamente terroristica: colpisce le infrastrutture civili, mostrifica mediaticamente il proprio nemico, de-umanizzandolo, non conduce una guerra lineare sul campo, ma anche attraverso l’inquinamento delle opinioni pubbliche e mediante assalti digitali. La guerra globale e post-diritto internazionale, spesso senza divisa ma sempre più spesso senza alcuna regola, è una guerra non solo totale come quella che venne infelicemente evocata e praticata durante il secondo conflitto mondiale, e che coinvolse i civili non più come vittime collaterali e incidentali ma come obiettivi quasi legittimi in quanto appartenenti a un ordine ‘altro’, ostile e nemico ontologicamente, ma una guerra ibrida, fantasmatica, che nega alla luce del sole di essere guerra.
Una guerra che scorre nei cavi di silicio e che aggredisce le infrastrutture civili, una guerra che non riconosce più alcuna forma di dignità all’antagonista e all’avversario, ridotto a nemico assoluto, una guerra che usa consapevolmente la sfera non militare, introiettata nei dispositivi di conflitto, per determinare una reazione scomposta e brutale su cui capitalizzare, una guerra che si muove serpentina attraverso le penne degli editoriali e nelle aule accademiche, una guerra che si nutre dei flussi di finanziamenti a organizzazioni private sovente dall’appeal terroristico.