No, il governo Meloni non ha abolito la povertà. Ma in un anno l’ha ridotta, a differenza di “Gigino” e “Giuseppi”

8 Mag 2024 9:41 - di Lucio Meo

Era il 28 settembre del 2018, al termine del Consiglio dei Ministri che aveva trovato l’accordo sul Def, affacciato dal balcone di Palazzo Chigi, con gli altri ministri del Movimento 5 Stelle, il vicepremier Luigi Di Maio, detto “Gigino”, con all’interno il premier Giuseppe Conte, detto “Giuseppi”, festeggiava con la folla di parlamentari pentastellati il varo del Reddito di cittadinanza mentre un corteo con bandiere e striscioni al seguito, da Montecitorio,  si muoveva verso il palazzo del governo. “Oggi aboliamo la povertà”, aveva detto di Maio dal balcone, forse anche un po’ brillo.
Oggi, a distanza di sei anni, possiamo tranquillamente dire che era molto brillo, almeno politicamente, visto che nonostante il “sussidio” a pioggia, distribuito a lavoratori a nero, mafiosi, pusher, immigrati irregolari e anche ricchi imprenditori e professionisti in colletto bianco, la povertà era rimasta a opprimere i veri poveri. Qualcosa, però, deve essere accaduto nell’ultimo anno, visto i dati forniti dall’Istat. Con l’abolizione del Reddito di cittadinanza, da parte del governo Meloni, non è stata abolita la povertà ma sicuramente è stata ridotta: nell’esercito di 11 milioni e 121 mila individui che con un reddito inferiore a 11.900 euro l’anno sono a rischio, ci sono 679.000 indigenti in meno. Merito del Pil cresciuto, dell’aumento dell’occupazione, dell’abolizione dei sussidi, della “scomparsa” dal panorama politico delle “droghe” assistenzialiste proprie della filosofia grillina.

Povertà in calo e lavoro in aumento

Secondo l’Istat, l’aumento dell’occupazione ha portato a un brusco calo, rispetto all’anno precedente, della quota di individui (8,9% da 9,8%) che vivono in famiglie a bassa intensità di lavoro, “ossia con componenti tra i 18 e i 64 anni che hanno lavorato meno di un quinto del tempo”. Da qui la diminuzione del rischio povertà, sceso nel 2023 al 18,9% (era il 20,1% nel 2002). “Complessivamente – sottolinea l’Istat – tra chi è a rischio di essere trascinato nel pozzo della povertà, chi fa parte degli esclusi sociali (reddito sotto una certa soglia, grave deprivazione materiale, scarsa intensità di lavoro) si arriva a 13 milioni e 391.000 persone (22,8% della popolazione, contro il 24,4% del 2022). Sono i pensionati e i sussidiati – continua l’Istat – a rischiare di più di essere fagocitati dal mostro povertà. E anche chi ha come fonte principale di reddito quello da lavoro autonomo ha un forte margine di rischio (la quota nel 2023 è salita al 22,3% rispetto al 19,9% nel 2022). Più tranquille le acque per chi ha un lavoro dipendente”.

Ma c’è di più: l’introduzione dell’assegno unico (percepito da 7,8 milioni di persone per un importo medio di 1930 euro l’anno e un costo complessivo di 15,1 miliardi) ha ridotto dell’1% la percentuale di famiglie a rischio povertà e aumentato dello 0,66% l’indice Gini sull’equità della distribuzione dei redditi equivalenti. Le disuguaglianze sono diminuite soprattutto nel Nord-Ovest e nel Nord-est.

Quando Di Maio annunciò l’abolizione della povertà

 

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