Sergio Ramelli 49 anni dopo, c’è ancora chi ha nostalgia degli anni di piombo e dell’Italia divisa
C’era un sacco di sangue a via Paladino numero 15, a Milano, quel 13 marzo del 1975. Resterà lì anche oltre i quaranta giorni che separeranno un militante della destra giovanile milanese dalla morte. Sergio Ramelli aveva diciannove anni e la colpa, irredimibile, di essere il fiduciario del Fronte della Gioventù al Molinari, il suo istituto scolastico di appartenenza, prima di essere costretto a trasferirsi altrove per l’aria irrespirabile della discriminazione.
Ramelli, l’antifascismo militante lo mirò al centro del cranio
Questo bastò, con la formuletta salvacondotto dell’antifascismo militante, a inserirlo nelle liste di proscrizione, metterlo all’indice persino con la pubblicazione nella bacheca dell’istituto di un suo tema nel quale si permetteva di criticare le Brigate Rosse, i famosi “compagni che sbagliano”, piazzandogli un bel mirino al centro del cranio. Sergio morì, dopo un numero imprecisato di colpi di Hazet 36, per mano degli studenti di medicina del famigerato servizio d’ordine di Avanguardia operaia, dopo una lunga agonia, il 29 aprile del 1975.
La sua unica colpa: militare nel Fronte della Gioventù milanese
Moriva un “fascista” e sembrava non importasse a nessuno, tanto che il consiglio comunale meneghino applaudì alla sua morte, perché “uccidere un fascista non era un reato” in quella Italia e in quella Milano. Eppure Sergio non era un picchiatore, non aveva mai partecipato a nessuna rissa, si era iscritto al Movimento Sociale per reazione nei confronti di quelli che considerava i soprusi degli autonomi nel suo istituto. Un clima agghiacciante che pensavamo fosse stato seppellito dalla storia, così poco benevola nei confronti dei protagonisti degli anni di piombo eppure ancora oggi pochissimo “maestra di vita”.
Dopo mezzo secolo lo schema non cambia
A distanza di quarantanove anni, infatti, in nome dell’antifascismo militante i fantasmi della violenza “giusta”, quella proletaria dei figli di papà e degli intellettuali alla moda, sono tornati a far sentire la loro voce, dalle colonne dei giornali, nei talk televisivi, nelle aule universitarie, nei salotti dei premi letterari. E così Ilaria Salis, l’amica della “Hammerbande”, ovvero la “banda dei martelli” che colpisce, sulla base di una loro insindacabile selezione, neo-nazi in giro per l’Europa, passa da eroina incatenata sotto processo a Budapest addirittura a potenziale parlamentare europea, sotto le insegne della sinistra extraparlamentare. Oppure la novella finalista dello Strega, Valentina Mira, impegnata a ribaltare la narrazione di Acca Larentia, che punta a far diventare “pop”, con l’aiuto della critica militante, la storia dietro le quinte di un compagno suicida, Mario Scrocca. Il tutto, ovviamente, relegando gli assassinii di Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni a una conseguenza quasi scontata del fatto che fossero, poveri loro, “fascisti”, o peggio ancora “icone intoccabili del neofascismo”, come li definirà quasi con fastidio.
Non c’è pace per i morti in questa Italia
Lo schema è sempre quello, pericoloso e infallibile, nella sua meschinità: alzare il livello dello scontro, annullare le differenze e mettere nello stesso calderone tutto quanto non risponda ai canoni di democrazia della sinistra politico-intellettuale che su fascismo e antifascismo ha costruito carriere, fortune, beatificazioni in vita e postume. A questo schema si sacrifica tutto, dalla libertà di pensiero e di espressione, valida solo se le argomentazioni sono in linea con il pensiero dominante, alla incolumità anche fisica di chi decida di schierarsi dalla parte sbagliata della storia, fosse pure quella in linea con il pensiero della maggioranza degli italiani che scelga, democraticamente, un governo e i propri rappresentanti.
La sinistra è incapace di chiudere i conti col passato
Non c’è pace neppure per i morti in questa Italia volontariamente incapace di uscire dal dopoguerra. Non c’è pace per Sergio, seppure le sue foto in bianco e nero dovrebbero avere spazio solo nei libri di storia. Per raccontare come la violenza politica abbia segnato quella generazione e non si debbano ripetere gli errori del passato per non ripiombare nella logica degli opposti estremismi e della guerra per bande. C’è qualcuno, nella cittadella ovattata dell’intellighenzia autoproclamata di questa Italia che vuole veramente chiudere i conti col passato, storicizzarlo e andare avanti, o siamo ancora fermi, tristemente e anacronisticamente, alle “10, 100, 1000 Acca Larentia”, rassicurante feticcio per pseudo-rivoluzionari con l’aspirazione da cattivi maestri? La domanda, purtroppo, è soltanto retorica.