Dal moralismo politico al diritto “moralizzatore” L’insospettabile proto-grillino: Enrico Berlinguer

11 Apr 2024 7:20 - di Andrea Venanzoni

Enrico Berlinguer, santo patrono della sinistra nonché mitizzata figura aureolata, è anche il padre morale del grillismo e del tracimare sinuoso e impetuoso della morale tra i granelli sabbiosi della politica. Sin da quella famosa intervista concessa a Scalfari sulla “questione morale”, apparsa sulle pagine di Repubblica nel luglio del 1981, il lessico moralista, poi col passare del tempo fattosi slavina soprattutto per esser stato maneggiato da mani meno accorte e meno raffinate di quelle del Caro Enrico, è divenuto dispositivo innervato nelle carni dello scontro politico e del modo in cui i mezzi di comunicazione hanno rimandato e rimandano ancora oggi la matrice costitutiva stessa del fare politica.

D’altronde, Berlinguer, nella misura programmatica da cui traeva avvio la sua presa di posizione calvinista, sintetizzava l’orrore per la degenerazione della politica ponendone la colpa sulle spalle dei partiti. E cementando, sacralmente, il doppio standard tipico di tutti i moralisti, per quanto di elevata caratura intellettuale e culturale come Berlinguer fu: lo fece guardandosi in casa, nella casa del PCI e assolvendo la immutata passione del proprio partito, e quindi finendo con la bacchettina per tracciare un solco tra il ‘noi’ e un drammatico ‘loro’.

Quel manicheo “noi” e “loro”

Ogni moralismo, si sa bene, oltre che cieco è anche sempre estremamente manicheo. Mal digerisce le sfumature, i campi intermedi, il grigio, preferisce il fulgido e feroce dualismo tra la purezza del bianco e l’oscurità sinuosa del nero. L’occupazione da parte dei partiti del corpo sociale e istituzionale della Repubblica, lamentava Berlinguer, la loro trasformazione in dispositivi di potere e affarismo, erano situati alla radice del tramonto del senso di responsabilità della forma partitica, ormai malata, in affanno, e dello stare nell’agone politico.

Un messaggio scivoloso, pericoloso, perché immetteva nel dibattito pubblico eccitato dagli scandali e dall’invasione magistratuale parole d’ordine morali. E si sa, lo ricordava Elias Canetti ne “La provincia dell’uomo”, “non ho mai sentito parlare di un uomo che abbia attaccato il potere senza volerlo per sé”. I fatti occorsi nella nostra malandata Repubblica, con l’antipolitica moralistica trasformatasi in mostro ghignante incistato nei gangli del potere, hanno dato a Canetti pienissima ragione.

Dal moralismo politico alla moralizzazione attraverso il diritto

Ricordiamo che pochi anni prima della “questione morale” lanciata da Berlinguer all’inizio degli anni Ottanta, e precisamente agli inizi degli anni Settanta, la magistratura e il mondo del diritto pencolanti a sinistra avevano teorizzato spunti non dissimili; la moralizzazione dei costumi sociali e del conflitto tra classe egemone e le figure interstiziali, minoritarie, schiacciate dal potere borghese, nel famoso congresso di Catania che viene oggi considerato momento fondativo della teorica dell’uso alternativo del diritto, nonché atto programmatico di un modo “progressista” di intendere l’azione giuridica e il diritto pratico stesso. Magistratura Democratica, “corrente” di sinistra della magistratura associata, era stata costituita solo pochissimi anni prima e dalle teoriche del congresso catanese si abbeverò in misura non incidentale e non secondaria.

Tutto ciò si tradusse prima nell’attivismo pretorile, consistente nell’interpretare la norma in chiave evolutiva dando ragione alle classi subalterne, contro la monoliticità privilegiata del potere: inquilino da tutelare contro il proprietario di casa, considerato quasi sempre padrone dispotico, lavoratore da aiutare contro la tirannia del datore di lavoro, e via dicendo. Libertà di impresa da funzionalizzare e da leggere in maniera imbrigliata, proprietà privata da smitizzare e relativizzare. D’altronde al 1981 risale la celebre monografia di Stefano Rodotà sulla proprietà privata dal significativo e programmatico titolo, “Il terribile diritto”.

Questo modo di intendere il diritto pratico, il processo, le indagini quando nel campo del penale, sarebbe stato poi seguito, lungo la dorsale degli anni Ottanta e Novanta fino a Mani Pulite, da una magistratura che avrebbe voluto attuare la Costituzione, carta suprema “tradita” un po’ come per certi gruppi di sinistra radicale la stessa Resistenza era stata tradita: laddove, specifichiamolo, attuazione in questo senso diventa sinonimo di realizzazione del sistema marxista.

Ricordiamo tutti che dalle ceneri di Mani Pulite, tra le macerie fumanti del sistema partitico, emerse l’eco vagabonda di una giustizia totale, resa morale, demiurgica nei suoi tentacoli salvifici, opposti all’ingordigia nefasta della politica. Una onda lunga cui, purtroppo, anche la destra del tempo, che vedeva luce per la prima volta dopo decenni di ghetto e di conventio ad excludendum, si accodò, vellicando certe tentazioni magistratuali.

In quei mesi incandescenti vide nascita il primo vasto programma di qualunquismo populista giudiziario che avrebbe anche qui messo radici preoccupanti e sarebbe sfociato nel grillismo propriamente detto. Un giustizialismo feroce, da Grande Inquisitore de I Fratelli Karamazov, che avrebbe affratellato una certa narrazione mediatica e un sentire comune tra i cittadini che nei politici sapevano vedere solo corruttori e faccendieri laidi. Cesellati come un rosone ecclesiale di arcobaleni manettari, il populismo politico e quello giudiziario hanno celebrato nozze sulla carcassa della Prima Repubblica, lasciando sorgere il monolite grillino.

Il monolite grillino: dallo sfacelo della politica alla nemesi delle condanne per corruzione

Quelli della gazzarra, della bassa demagogia pseudo-giudiziaria, quelli per cui non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti e per i quali ogni sentenza di condanna certifica addirittura la verità storica, pure loro videro nello scintillante bagliore della onestà, morale prima ancora che giuridica, lo strumento inquisitorio e incappucciato attraverso cui condurre guerra totale politica. Il diritto penale totale, per dirla con Filippo Sgubbi, o il “populismo giudiziario” evocato da Giovanni Fiandaca, alchemicamente fusi con le arance esibite nell’aula capitolina o le promesse di tabula rasa, branditi come clave da orde grilline pronte a moralizzare il costume politico attraverso l’azione parimenti moralizzante delle Procure.

Quasi sessuale divenne così il piacere provato per le ossa macinate dagli avvisi di garanzia, dai refoli spifferati nei corridoi delle Procure e poi finiti stampigliati su certi giornali, in leniniani arabeschi di conflitto totale contro la senescente, putrida palude partitica. Come giacobini sotto la Bastiglia in fiamme, i patrocinatori della nuova questione morale hanno davvero festeggiato per ogni avversario finito indagato o proprio in carcere, contando poco che poi magari si rivelasse tutto un sordido bluff, una pesca a strascico; sulle loro carni, scarmigliati, urlanti, hanno eretto le loro fortune elettorali, di ogni ordine e grado.

Ma il moralista, si sa bene, è ama nascondere i propri scheletri negli armadi altrui. E non può così sorprendere scoprire come, lo ricorda Salvatore Merlo sulle pagine de Il Foglio, alcuni tra i maggiorenti grillini che durante la consiliatura di Raggi sindaca di Roma si occuparono del progetto dello stadio della A.S. Roma, siano finiti condannati per corruzione. Condanne quantitativamente assai pesanti. E per corruzione, ribadiamolo. Tragica nemesi, legge karmica, quello specifico reato che sembra evocare la putrida pancia del politico che, ontologicamente, non può far altro che volersi garantire privilegi e ricchezza. Non male per chi ha voluto titolare una legge “spazzacorrotti”, triste semantica legistica populista e manettara.

D’altronde cosa aspettarsi in fatto di coerenza da chi per attaccare la Santanché, indagata, fa parlare in Parlamento l’ex sindaca di Torino, condannata per reato colposo in due gradi di giudizio per i noti e tragici fatti di piazza san Carlo? Un paradosso disinnescato, nella “logica” grillina, dall’accecamento da moralismo giacobino, da quel manicheismo già tratteggiato da Berlinguer, da quella differenziazione quasi antropologica e metafisica tra “noi” e “loro”.

In uno spazio di confronto civile della politica si sarebbe dovuto riconoscere che non possono essere le indagini e nemmeno un rinvio a giudizio a sostituirsi alla dialettica e alla funzione di intermediazione tra società e Stato che la politica esplica da sempre. Ma è vano dirlo, vano perché loro, la sinistra, i grillini, sono ancora oggi quelli della morale elevata sulla punta di lancia delle indagini.

Sono quelli che urlano chiedendo dimissioni al primo agitarsi di avviso di garanzia, e su questo pure una parte della destra dovrebbe farsi un ampio esame di coscienza, quando ad essere raggiunto è un loro avversario, e poi però tacciono, glissano, sorvolano, quando a finire imbrigliati in condanne o in indagini, per corruzione, come nel caso capitolino, o per compravendita di voti come sta avvenendo ora ad esponenti PD in Puglia e in Piemonte, è uno della loro parte.

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