Torna il libro di Tripodi che smascherò gli intellettuali trasformisti: si riciclarono dopo aver messo la camicia nera
Si deve all’opera del professor Giuseppe Parlato, uno degli storici della nidiata di Renzo De Felice – tra i quali vanno ricordati, nelle diverse sensibilità e campi di interesse, anche Emilio Gentile e Francesco Perfetti – la riproposizione di un libro di Nino Tripodi (1911-1988) che, all’inizio degli anni Ottanta, fece discutere e fu anche motivo di dibattito acceso: Intellettuali sotto due bandiere. Un testo, estremamente documentato, che anticipava di oltre vent’anni le tesi e in parte l’interpretazione di un saggio del 2005 scritto da Mirella Serri: I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948.
In quest’ultima opera, la storica analizzava attraverso lo studio della rivista di Bottai, Primato, i percorsi, tra fascismo e antifascismo, di figure come Mario Alicata, Carlo Muscetta, Alfonso Gatto, Renato Guttuso e tanti altri… Figure transitate senza abiure o traumi ideali troppo stridenti da un assetto politico all’altro. Nel caso della Serri l’obiettivo era focalizzato soprattutto al cambio di bandiera tra mussolinismo e comunismo. Nel libro di Tripodi, critico letterario, parlamentare, giornalista e, per tredici ininterrotti anni, anche direttore del Secolo d’Italia, l’orizzonte è più ampio. Gli intellettuali presi in esame occupano tutto lo spazio ideale: cattolici, liberali, azionisti, laico-risorgimentali, socialisti e, anche, comunisti. Annota Parlato: «Quello che colpisce, nel racconto di Tripodi, è il fatto che giornalisti, professori universitari, intellettuali, giuristi, letterati, filosofi e storici, fascisti assolutamente determinati fino al 25 luglio 1943 (o poco prima) […] continuarono a fare gli intellettuali, gli storici, i filosofi o i poeti come se nulla fosse».
La nuova edizione di Intellettuali sotto due bandiere (La scuola di Pitagora editrice, 682 pagine) arrivata ora in libreria è la ristampa, emendata da sviste e da qualche refuso tipografico, dell’edizione del 1981, allora proposta da Ciarrapico Editore. A leggerla – e studiarla attentamente – si resta colpiti da una sensazione che rimanda al mittente il recente uso politico dei temi della storiografia sul fascismo, che “antistoricamente” presenta gli anni italiani tra le due guerre mondiali del Novecento come – stando alle parole di Parlato – solo «un insieme di elementi, di fatti, di figure moralmente ripugnanti». Interpretazione sbagliata e che non tiene conto della realtà vissuta dagli italiani, non solo dagli intellettuali, in quelli che De Felice definì gli “anni del consenso”.
Intanto perché, come si scopre nel libro di Tripodi, alcuni studiosi, artisti e scrittori che operarono durante il regime in camicia nera, soprattutto nelle riviste dei gruppi universitari fascisti, già prima della fine della guerra si erano avvicinati al Partito comunista pensando questa scelta in coerenza con la loro cultura politica. Tra questi Alicata, Brancati, Alvaro, Rèpaci, Zangrandi, Lajolo, Guttuso, Pintor, Puccini, Aristarco, Salce, Chiarini, Fortunati, Ingrao, Trombadori, solo per citare i più noti. In secondo luogo, perché comunque anche i giovani intellettuali di formazione cattolica, o laico-risorgimentale, o socialista trovarono nel regime e nelle sue organizzazioni la possibilità di esprimere le proprie aspirazioni e ambizioni. Anche perché i Littoriali della cultura e dell’arte rappresentarono effettivamente una mobilitazione culturale di massa, la prima alla quale l’Italia, dalla sua unificazione nazionale, aveva avuto l’occasione di assistere. Non ci fu studente o giovane interessato all’arte e alla cultura dell’epoca che non ebbe l’occasione di assistervi. Si trattò, anche dal punto di vista organizzativo, di un fenomeno straordinario: alle selezioni provinciali, i Prelittoriali, parteciparono decine di migliaia di giovani, universitari e non, che furono selezionati da giurie qualificate per potere adire ai Littoriali veri e propri. Considerando i sette Littoriali (dal 1934 al 1940), i numeri della mobilitazione culturale risultarono assai consistenti. Le giurie dei Prelittoriali, inoltre, erano composte dalla maggioranza dei docenti universitari e dagli intellettuali più anziani che valutavano i giovani.
Il libro di Tripodi ci fa vedere come, fra i “littori”, e cioè i vincitori delle varie sezioni dei Littoriali, figurano nomi di personaggi che avrebbero acquisito assoluta notorietà nei decenni della Repubblica democratica, tra i quali Francesco Pasinetti, Leonardo Sinisgalli, Antonio Amendola, Alberto Lattuada, Vittorio Zincone, Enrico Fulchignoni, Vincenzo Buonassisi, Dino Del Bo, Carlo Muscetta, Luigi Meneghello… Scrive Tripodi, spiegando in parte l’apparente “non contraddizione” vissuta da questi aspiranti intellettuali: «I giovani volevano un fascismo universale e su questo piano erano possibili interazioni con il mondo cattolico e con quello comunista. Si trattava di qualcosa che superasse le vecchie ideologie dell’Ottocento e del primo Novecento…». Su questo piano sono molto interessanti anche le pagine sui futuri esponenti di governo della Democrazia cristiana, da Aldo Moro a Fiorentino Sullo, da Mario Ferrari Aggradi e Luigi Gui sino a Giulio Andreotti e Carlo Donat-Cattin, tutti esprimenti adesione al regime e alle ragioni della guerra. Così come vanno sottolineate le pagine sul Convegno degli scrittori europei di Weimar del 1942, al quale parteciparono anche i giovani Pier Paolo Pasolini e Giaime Pintor. Il primo ne scrisse entusiasticamente sul settimanale del Guf di Bologna, del quale era assiduo collaboratore. E per quanto riguarda il secondo, sul tema lasciò «pagine che fanno dubitare sulla pretesa di una sua critica al fascismo prima della tragica realtà dell’invasione nemica». Tanto che anche Ruggero Zangrandi sarà costretto ad ammettere che i resoconti di Pintor apparsi su Primato «non sembrano francamente contenere elementi critici adeguati alla circostanza e al momento».
Intellettuali sotto due bandiere è un libro utile oggi contro ogni tentazione di facile manicheismo strumentale e, soprattutto, necessario per avvicinarci a una interpretazione complessiva del nostro Novecento. Ritrovare una vera e piena consapevolezza nazionale non sarà possibile fino a che non si racconti la nostra storia senza reticenze e senza ricostruzioni postume. Da questo punto di vista, per comprendere il fenomeno del cambio di prospettiva della maggior parte degli intellettuali Tripodi, e qui forse è la parte meno convincente del libro, sembra indulgere troppo alle categorie della “coerenza mancata” e del “tradimento”. È Parlato, nella postfazione, a correggere il tiro, precisando di essere «convinto che, proprio a livello ideologico, i cambi di prospettiva sono possibili, soprattutto in un regime che a mio avviso difettava esso stesso di coerenza ideologica, nonostante lo sbandierato totalitarismo». Questioni storiografiche e politologiche di grande, estremo, rilievo. Ma questioni da lasciare agli studiosi e da non sciupare nel clamore strumentale e velenoso delle polemiche sull’attualità di oggi.