L’emergenza femminicidio e la difficoltà della sinistra nel combattere battaglie con spirito bipartisan

20 Nov 2023 16:15 - di Mario Campanella

La morte di Giulia Cecchettin è stata tremenda. Così come per ognuna delle 103 donne uccise in questo anno. E tuttavia sembra innaturale scollegarla dalle altre 102, poiché è impossibile fare una classifica del dolore. Cercare di capire le ragioni perché un uomo, addirittura un ragazzino di 22 anni, uccida la propria compagna non è facile.
Si possono elencare i continui colpevoli tra scuola, famiglia, centri aggregativi ma sarebbe insufficiente.
Di sicuro, la famiglia ha subito una profonda trasformazione sin dalla fine degli anni settanta per una serie di variazioni sociali enormi.
Ma anche questo è solo un segmento, per quanto importante, che non spiega al meglio le difficoltà di entrare in empatia, l’accettazione del dolore di una separazione, che è di per sé un lutto, la difficoltà di recepire la sofferenza del distacco e di viverla per quella che è, una sensazione di solitudine e di sconfitta che va elaborata e vissuta fino in fondo come processo di maturazione.
Ha ragione Nordio quando afferma che più che una nuova legge servono sistemi di correlazione che riuniscano due universi paralleli fatti per incontrarsi.
Ci sono considerazioni da fare intorno a fenomeni che vengono automaticamente amplificati da un sistema mediatico che coinvolge i social. La prima è che non servono sistemi surrettizi di femminismo intesi e concepiti come negli anni settanta e cioè come scontro sociale.
I processi di conquista sociale presuppongono obiettivi che oggi sono completamente diversi da allora.
È corretto insistere sui sistemi educativi ma sarebbe ipocrita non censurare quelli usati nell’ultimo trentennio, poco efficaci e poco capaci di accedere alle sensibilità individuali.
Il limite che ha la sinistra, storicamente, almeno quella massimalista, è considerare ogni azione subliminale in funzione del consenso.
Lo si è visto nelle politiche antimafia, che negli anni settanta e ottanta erano interessanti e coinvolgenti e che hanno mano mano perso seduzione e interesse. Se un tema comune (lo sono la lotta alla mafia e ai femminicidi) diventa motivo di parte o di prevalenza di una parte cessa di essere condiviso.
Un’altra considerazione è la continua tentazione che ha una parte politica di trasformare tragedie in possibili opportunità di politicizzazione. È successo tante volte e rischia di succedere ancora, attraverso candidature spot che vanificano la ragione sociale dei temi trattati.
Per tanto tempo la sociologia di comunità (che ha molti meriti) ha guidato i processi politici del PCI e della sinistra pensante europea, negando in ogni modo le responsabilità individuali rispetto a quelle collettive. Se tutto è colpa della società si elide la colpa singola. Dostoevskij pare essere stato liquidato con molta leggerezza dalla narrazione dominante. Foucault più di tutti indirizzò il cambiamento ideologico della sinistra e per tanto tempo, ancora oggi, l’umanesimo liberale è stato zittito.
Se fosse possibile agire come mediazione generale dei conflitti dovremmo chiedere giustamente una reciproca collaborazione tra ogni parte attiva, mentre dopo avere accusato (con molte ragioni) il capitalismo puro di avere prodotto sperequazione e aree di degrado che favorivano la delinquenza oggi accusiamo la troppa opulenza di avere partorito mostri. E ancora invochiamo una nuova organizzazione familiare e allo stesso tempo indichiamo diverse opzioni di famiglia.
C’è abbastanza confusione e terreno di coltura per i profittatori del business del dolore e scarsa volontà di realizzare quei percorsi di conoscenza di sé stessi e degli altri che rendevano possibile l’omeostasi del passato. Fare di una questione così complessa un motivo di revanche difficilmente porterà benefici rilevanti.

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