I giudici a Bologna ammettono: contro i Nar nessuna prova, solo pochi indizi
Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e pubblichiamo
1714 pagine di sentenza – quella di condanna in primo grado a carico di Paolo Bellini – non possono che essere analizzate con attenzione e pazienza, rifuggendo la tentazione di riassumerne il contenuto, sintetizzando il solo dispositivo. D’altro canto, è noto – specialmente al termine del primo dibattimento – come sia importante capire e sapere non solo se si condanna o si assolve l’imputato, ma anche il perché e in base a cosa si è giunti a una determinazione di responsabilità o di estraneità ai fatti in analisi. Da questo punto di vista, l’ormai ex-magistrato Francesco Caruso regala al lettore e agli appassionati della storia giudiziaria della Strage di Bologna “perle” di raro interesse.
A pagina 1497, proprio all’inizio del capitolo 17 , al terzo capoverso, <La responsabilità di Paolo Bellini> -, al terzo capoverso si legge
come contro l’ex-pentito di N’drangheta abbia giocato <una concatenazione di elementi aventi per lo più natura indiziaria, che devono ritenersi nel loro complesso raggiungere la soglia quantitativa e qualitativa richiesta dalla regola probatoria>. In parole più semplici, non c’è alcuna “prova” propriamente detta che inchiodi Bellini alle sue presunte responsabilità, ma solo il “libero convincimento” della Corte, sulla base di meri indizi che appaiono, globalmente considerati, costituire questa agognata “prova”. Nulla di scandaloso, sia chiaro, tenendo a mente quanto previsto dall’articolo 192 del Codice di procedura penale, e tanto meno di particolarmente interessante. Il meglio, infatti, su questo punto, il presidente della Corte lo scrive nel capoverso precedente, quando rivendica come, nel rito da lui governato: “Gli elementi di prova ravvisabili a carico dell’imputato si palesano, sia dal punto di vista quantitativo sia dal punti di vista qualitativo come di gran lunga maggiori e più incisivi rispetto a quelli ravvisati a carico di altri soggetti che sono stati condannati per lo stesso fatto”.
Se non è chiaro, si ripete: non esistono prove, ma solo indizi a carico di Paolo Bellini, ma sufficienti a condannarlo, dal momento che contro Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e Pierluigi Cavallini ce n’erano e ce sono ben anche di meno! Al di là della consistenza degli indizi di questo specifico processo, su cui si dirà a breve, è comunque una notizia di non poco momento l’ammissione – in una sentenza – della scarsità di elementi di colpevolezza a carico dei quattro componenti storici dei Nar. Questo passaggio ha un valore immenso specialmente nel dibattito che, da sempre, si è acceso intorno ai processi per la Strage di Bologna, dal momento che – sopra a tutti per chi ha valutato positivamente l’operato di Caruso – nessuno può più dire che Mambro, Fioravanti, Cavallini, Ciavardini “sono colpevoli”, ma solo che “sono stati ritenuti colpevoli”.
Penalmente, la differenza è irrilevante, ma storicamente – e moralmente – gigantesca, poiché lascia libero, anzi, quasi costringe colui che approccia la materia a rivalutare le fondamenta di questa convinzione, prima di formulare un qualsiasi giudizio. Dunque, vale la pena analizzare almeno uno di questi “indizi” – rinviando gli altri, per ragioni di spazio, a successive analisi – che diventano prova, almeno nella mente del magistrato. Ed è bene partire da quello più importante, quello relativo ai soldi che i Nar avrebbero preteso e ottenuto per compiere la strage.
Parola di Caruso, pagina 1566: <Benché non sia emersa una prova diretta della dazione di somme consistenti agli esecutori materiali della strage, per il tramite di Marco Ceruti o di Federico Umberto D’Amato, detti flussi di denaro erano minuziosamente descritti in un documento gelosamente custodito da Gelli proprio nel portafoglio fino al 1982, quando venne arrestato in Svizzera, ciò a dimostrazione di quanto quel documento fosse ritenuto da lui di vitale importanza. D’altra parte, Gelli non fornì mai spiegazioni attendibili sul significato e lo scopo di quei flussi di denaro>. Ora, a parte la ripetuta ammissione che si è costretti a ribadire circa l’inconcludenza e l’inconsistenza delle indagini sul punto specifico, a causa del quale questa prova del passaggio del denaro di Gelli ai Nar concretamente non esiste; si soppesino bene gli indizi che dovrebbero supplire a questa mancanza. Un appunto nel portafoglio di Gelli? Ma in quale universo parallelo si è dimostrato anche solo labilmente che quell’appunto si riferisse alla Strage di Bologna? La gelosia con cui Gelli custodiva quel pezzo di carta nel portafogli? Esiste un posto meno sicuro del portafogli per un latitante – che tale era Gelli nel 1982 – per conservare un documento di vitale importanza, alla merce’ non solo di un’eventuale perquisizione, ma del primo e neppure tanto abile scippatorello di strada?
Si può credere veramente che un faccendiere sempre in movimento e in fuga per il mondo, ma con covi blindati tra Europa e Sud America, porti attaccato alle chiappe il foglio che gli dovrebbe garantire o impunità o l’ergastolo, a seconda dell’uso che ne può fare lui stesso o i suoi accusatori? Non è un’ipotesi, è un vero e proprio insulto all’intelligenza anche della stessa persona che scrive una cosa del genere. Poi, non è vero e non è corretto dire che non si sia capito, nel processo, se a portare quei soldi ai Nar sia stato Ceruti o D’Amato: l’ipotesi dell’accusa – anticipata, diffusa e ripetuta ossessivamente da buona parte dei media prima ancora che il processo iniziasse – era che a consegnarli a Fioravanti fosse stato il socio di Gelli, l’unico degli imputati importanti ancora vivo nel troncone “mandanti”.
Siccome, però, Ceruti non si è fatto intimidire dalla prospettiva di un rinvio a giudizio per falsa testimonianza e ha negato seccamente la circostanza, la Corte ha risolto l’antipatico ostacolo, attribuendo la dazione all’ex-capo dell’Ufficio Affari riservati che – guarda caso! – è morto e non può più smentire alcunché. Per inciso, va anche detto che Ceruti ha avuto ragione a non cedere alle pressioni, perché nessuno lo ha rinviato a giudizio, accusandolo di mendacio. Ma il meglio, viene alla fine, quando si dice che Gelli non avrebbe mai spiegato diversamente i flussi di denaro d’interesse per la Corte. Facile, una tale considerazione, ora che Gelli – guarda caso! – è morto da anni. Facile perché di quei flussi di denaro – emersi nel corso del processo per il “crack” del Banco Ambrosiano -, nessun magistrato ha mai chiesto conto al capo della “P2” in relazione diretta con la Strage del 2 agosto 1980 fintanto che è stato in vita.
La correlazione tra quegli appunti di Gelli e il presunto finanziamento ai Nar è di poco precedente l’incriminazione formale di Gilberto Cavallini, 2017 o forse 2018, cioè, almeno due o tre anni dopo la sua morte, avvenuta nel 2015. Non bisogna andare oltre – anche se ci si andrà – per illustrare come, nel Tribunale di Bologna, più che un libero convincimento, paia sia l’adesione convinta e indefessa a un dogma a trasformare in prove gli indizi, per altro neppure così numerosi. E il dogma non appartiene alla stessa sfera logica e psicologica del libero arbitrio del Diritto; ma a quello della “fede” in teologia.